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Predicazione e catechesi come anticorpi contro il populismo

Il papa ha perso le elezioni e la Conferenza Episcopale Italiana con lui. La valutazione, condivisa da molti analisti, appare verosimile. Le gerarchie, e ancora più energicamente la stampa cattolica, hanno chiaramente disapprovato la strumentalizzazione salviniana dei simboli religiosi e la grottesca chiamata in causa del “cuore immacolato di Maria” da parte del conducator della Lega; da mesi costituiscono una delle voci più incisive nel dibattito sulla politica anti-immigrazione del Ministro dell’Interno; e l’Avvenire di Marco Tarquinio, su questo punto, va a braccetto con il Manifesto.

Buona parte del popolo della messa domenicale, tuttavia, per non parlare del cattolicesimo diffuso che la messa la frequenta poco, la pensa diversamente e ha contribuito in termini sostanziosi al trionfo leghista del 26 maggio. Sembra che accada un po’ dappertutto, dall’America di Trump al Brasile di Bolsonaro: costui, a quanto pare, è il proprietario del marchio di fabbrica della consacrazione politica al cuore di Maria, mostrando un’inquietante capacità ecumenica di fare il pieno di voti tra evangelici e cattolici, purché reazionari.

Difficile prevedere le conseguenze del voto nella leadership cattolica italiana. Che il papa cambi rotta è del tutto improbabile e i vescovi sono, ovviamente, papali ex officio. La Cei, però, è divisa tra chi Francesco lo ama e chi lo sopporta, più o meno a fatica. E tra questi ultimi non mancano coloro che rilevano che, intanto, Salvini parla di rosari e Madonne: sempre meglio, dal loro punto di vista, che gay e leggi sul fine vita. Credo sarebbe ingenuo considerare superato lo spirito di Camillo Ruini: il progetto, cioè, di rafforzare il radicamento cattolico nel paese mediante una specie di voto di scambio con le forze che di volta in volta interpretano l’animo conservatore del paese, ieri Berlusconi, oggi Salvini e chissà, magari qualche erede dell’Uomo della Provvidenza, che restituì Dio all’Italia e l’Italia a Dio.

Questi settori sanno benissimo che morto un papa se ne fa un altro e che non è affatto detto, a differenza di quanto alcuni vorrebbero credere e far credere, che Francesco rappresenti l’inizio di una tendenza di lungo periodo. Potrebbe benissimo essere un episodio, una piccola increspatura nell’onda lunga conservatrice impersonata al meglio da Wojtyla e Ratzinger. L’altro pezzo del cattolicesimo italiano, quello che spera in un futuro del franceschismo, sarà ulteriormente aiutato dalla temperie culturale dominante a rendersi conto che la propria interpretazione del messaggio cristiano è assolutamente minoritaria nel paese. L’Italia non ha nessuna voglia di ascoltare un evangelo declinato nelle forme della solidarietà politica con i meno avvantaggiati.

Una simile testimonianza è riservata a minoranze, nemmeno troppo numerose. Esse usufruiscono, per il momento, della potenza mediatica dell’apparato cattolico, condizionato dalla figura papale. Ma la presa del messaggio è più limitata di quanto appaia a prima vista. Quanto alle chiese evangeliche (quelle che pubblicano questa agenzia), la loro consistenza numerica le rende irrilevanti per quanto riguarda i posizionamenti politici nel paese. Anch’esse, tuttavia, dovrebbero riflettere sul fatto che il salvinismo ha fatto breccia al loro interno. Chi conosce bene le comunità sa che il punto di vista dominante tra pastori e gruppi dirigenti vive una dinamica che, nel suo piccolo, assomiglia a quella dei proclami papali: incontra cioè un dissenso, spesso silenzioso, ma in ogni caso avvertibile, all’interno delle chiese. Esso è probabilmente minoritario in alcuni contesti (nelle città ad esempio, in analogia a quanto accade in generale nel paese), ma assai più consistente in altri.

La predicazione e la catechesi, cioè, non hanno creato, neppure nella microscopica minoranza evangelica, anticorpi sufficienti contro i luoghi comuni del cosiddetto populismo. Ciò significa che, in termini generali, la Scrittura è letta (quando e se lo è…) in modo piuttosto disincarnato. Per chi si è formato ecclesiasticamente negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, può sembrare incredibile, ma così è. Tanto per cambiare, dunque, è da qui, dalla predicazione e dalla catechesi, che è necessario ripartire, in un’opera di formazione che richiede tempo e pazienza. Probabilmente una maggior sobrietà nei richiami direttamente politici può aiutare. La carica politica dell’evangelo non ha bisogno di enfatizzazioni, agisce per forza propria.

Tratto da nev.it