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C’è tanto da fare

C’è una questione Europa. Ma per noi c’è soprattutto una questione Italia, un problema-Italia, ed è questo soprattutto a inquietare. I risultati delle Elezioni europee vedono la Lega come primo partito con oltre il 34%. L’alleato di governo, il Movimento 5 Stelle, crolla al 17%. E il Partito democratico balza al 22%. Negli altri Paesi europei Marine Le Pen in Francia oltrepassa lo schieramento del presidente Emmanuel Macron; in Germania la Cdu regge, ma cala rispetto alle elezioni precedenti, e a sorpresa emergono i Verdi. Mentre in Italia la questione ambientale sembra non trovare casa. In Inghilterra vince il Brexit Partydi Nigel Farage al 33%, ma l’Europa potrebbe presto fare a meno di lui. In Ungheria, il partito di Orban tocca livelli altissimi, il 56%. In Spagna e in Portogallo, emergono i socialisti. Tsipras in Grecia perde con il 23,76% e chiede nuove elezioni.

In questa tornata i sovranisti sono primi in Italia, Francia e Regno Unito – un risultato non di poco conto – ma deludono in Germania, Olanda, Spagna e altrove, ottenendo un numero limitato di seggi al Parlamento europeo (saranno la quinta o addirittura la sesta forza nell’Europarlamento)e quelli britannici decadranno prima dei cinque anni di questo nuovo mandato, a causa degli effetti della Brexit.

Il loro peso specifico non sarà probabilmente decisivo nell’attribuzione delle cariche e dei ruoli. Crescono i Verdi, che sono il secondo partito in Germania, terzo in Francia e volano in Olanda e Irlanda, non in Italia però. Il Parlamento europeo che stiamo per vedere sarà in sostanza a larga maggioranza europeista, ma la frammentazione obbligherà ad accordi un tempo non previsti, come quello fra popolari, socialisti e liberali soprattutto. Una riproposizione, a livello continentale, del principio di Grosse Koalitionche la Germania ha saputo praticare con senso di responsabilità e di disciplina, a scapito dei risultati dei singoli partiti (soprattutto, a rimetterci è stato il Partito socialdemocratico). Cresce ovunque, tuttavia, ed è la prima volta dal 1979, anno della prima elezione dell’Europarlamento, la partecipazione. Un dato positivo tutt’altro che scontato alla vigilia, anche se l’affluenza rimane comunque bassa, appena sopra al 50%: un cittadino su due cioè è rimasto a casa.

Dunque c’è un problema Europa, relativamente gestibile, e uno molto più delicato in Italia.

Al di là della Lega, che è un partito di governo, e dunque vede riaffermati, e anzi incrementati, i propri consensi a dispetto del sempre più pallido alleato 5stelle, c’è anche l’affermazione di Fratelli d’Italia (oltre il 6%) a far riflettere. Ma proprio per questo l’impressione è che l’Italia resterà in un’Europa dove conterà sempre di meno.

Ora, è vero che andando alle urne praticamente una volta all’anno, risulta arduo ricavare delle indicazioni comparabili. Certo alcuni fenomeni sono chiari: l’erosione progressiva del centro-sinistra (ora timidamente si osserva una contro-tendenza, ma limitata e circoscritta al solo Pd); l’assenza in Italia di forze di cultura liberale (ben presenti, invece, come terza forza a livello europeo, sotto la denominazione Gruppo dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa – Alde, che conterebbe oggi 109 seggi), e ovviamente l’emergere dei partiti sovranisti. Ma occorre andare più in là, e cercare di capire quali fenomeni culturali ispirano quelle svolte continue, spesso destinate a contraddirsi fra loro nell’arco di pochi mesi.

A essere andata in crisi, non da oggi, è soprattutto l’idea della rappresentanza:la corruzione prima e la «tecnicizzazione» poi della politica hanno reso difficile creare una generazione nuova di politici consapevoli del loro ruolo. E la partecipazione interessa poco anche ai cittadini. Dilaga la convinzione che in ogni modo i destini della nostra quotidianità si giochino nelle reti globalizzate, nelle banche, nei presunti “poteri forti”. Non c’è più, nel sentire comune, l’idea che una persona possa rappresentarne delle altre, o possa rappresentare un dato territorio. E di conseguenza non c’è nemmeno l’idea che gli uomini e le donne possano essere attori del loro destino, come era tipico invece della classe politica uscita dall’ultima guerra mondiale. La politica manca di grandi ideali, e senza ideali non «convoca» le persone, non può appassionare.

I processi decisionali sono diventati impalpabili, clicke sondaggi: tante individualità che fanno fatica a parlarsi. La scuola, che spesso tende a fornire “competenze” anziché formare gli individui, non aiuta. Le chiese dovrebbero avere qualcosa da dire: nella loro vita quotidiana educano a discutere e a decidere insieme; il pastore o la pastora quasi sempre non sono presidenti delle loro chiese; la collegialità e la responsabilità caratterizzano un’importante eredità della Riforma. Sarà un caso che sulla questione ambientale, che tanto ha fatto accendere gli animi anche nel nostro paese, salvo poi venire rigettata nel corso della campagna elettorale, una certa coerenza l’abbiano dimostrata i Paesi dell’Europa del Nord?

Diversi compiti attendono le chiese: nel breve periodo, cercare di mantenere i livelli minimi di dignità delle persone e dei diritti dei più deboli, che ora saranno sempre più minacciati; nel medio e lungo periodo, cercare di capire quali tratti accomunano l’erosione della loro stessa consistenza e l’affievolirsi della passione politica. C’è tanto da fare.