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Una terra sempre più ingiusta

Lo scorso 15 maggio l’organizzazione umanitaria Medici per i diritti umani (Medu) ha presentato il suo quinto rapporto Terraingiusta sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro, uno dei luoghi più simbolici del fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori agricoli nelle lunghe filiere della raccolta, trasformazione e vendita di frutta e verdura.

Medu era arrivata nella Piana di Gioia Tauro sei anni fa, trovando una situazione che non poteva essere ignorata. Maria Rita Pica, responsabile dei progetti dell’organizzazione e curatrice del rapporto, racconta che «siamo partiti nel 2013 perché allarmati dalle immagini, dai racconti, circa le gravissime condizioni di vita dei braccianti che si radunavano ogni anno nella zona di picco della raccolta agrumi, negli enormi ghetti di cui ci raccontavano e di cui vedevamo le immagini che ospitavano migliaia di persone, così come i casolari abbandonati dispersi nella Piana di Gioia Tauro, le fabbriche in condizioni di abbandono, ci sembravano immagini che richiedevano un approfondimento».

Quali ragioni, o quali obiettivi, vi avevano portato in Calabria?

«Siamo andati perché volevamo verificare quali fossero le condizioni di vita e di salute di quella popolazione, consapevoli del fatto che quelli sono luoghi di forte e grande isolamento, dove anche l’accesso alle cure appariva piuttosto complicato, soprattutto in assenza di adeguate informazioni. Siamo andati ed effettivamente ci siamo resi conto che le situazioni erano ancor più drammatiche di quel che potevamo immaginare. Si trattava già allora di oltre mille persone che vivevano in una grande baraccopoli, alle quali poi si aggiungevano tutte quelle dei casali dispersi che erano più difficilmente raggiungibili e quindi abbiamo deciso di aprire un intervento della clinica mobile con l’intenzione proprio di conoscere più a fondo la situazione, di portare almeno le cure primarie, nella certezza che tutti loro avessero diritto, come tutte le persone, all’accesso alle cure perché sancito dalla nostra Costituzione e perché di fatto spesso ostacolato proprio dalle condizioni di vita e dalla mancanza di informazioni. Ci siamo proposti proprio di fare questo: curare ma nello stesso tempo favorire l’accesso ai diritti, ai servizi, e far conoscere queste situazioni».

Provando a fare un bilancio a distanza di sei anni, che evoluzione ritenete ci sia stata?

«Quello che vediamo è non solo che la situazione è rimasta nei suoi tratti salienti immutata, ma alle drammatiche condizioni di vita si sono aggiunti degli incendi che hanno causato quattro morti in poco più di un anno. Quest’anno i ghetti si sono ingranditi, le condizioni di sfruttamento lavorativo non sono migliorate, anche se apparentemente i numeri ci dicono qualcosa di diverso».

Spesso si parla dello sgombero e della chiusura dei ghetti, eppure sono sempre lì. Che cosa succede?

«Abbiamo visto ripetersi un circolo vizioso preoccupante: era il febbraio del 2012 quando apriva la prima tendopoli di San Ferdinando, per 300 persone, nella zona industriale di San Ferdinando, interessata ancora oggi da una tendopoli. Questa tendopoli poi era diventata rapidamente una baraccopoli perché lasciata senza un ente gestore e i numeri delle persone erano aumentati. Fu abbattuta l’anno successivo, nel 2013, per poi dare luogo ad una nuova tendopoli la quale successivamente si è di nuovo trasformata in una baraccopoli. Questo circolo vizioso tendopoli-baraccopoli ci sembra che vada spezzato. Ci troviamo ora in presenza di un’ennesima tendopoli e un ennesimo sgombero che è avvenuto il 6 marzo da parte delle istituzioni che hanno siglato quest’anno il terzo protocollo d’intervento interistituzionale per prendere degli impegni precisi volti al superamento di questa situazione, ma a questo punto non abbiamo fiducia, nel senso che siamo molto preoccupati per la stagione successiva, temiamo che ci troveremo di fronte a una ennesima tendopoli affiancata da un’ennesima baraccopoli e che gli impegni presi dalle istituzioni non avranno né tempo, né risorse, né forse la volontà politica di tradurre in azioni concrete. Ma la situazione potrebbe diventare ancora più critica per l’impatto del decreto sicurezza in termini di aumento delle persone irregolari presenti sul territorio potrebbe determinare addirittura un cronicizzarsi e un aumento numerico delle persone presenti nei ghetti».

Credete che possano esserci dei rischi per lo status giuridico delle persone in questi luoghi?

«Durante il nostro intervento di assistenza medica attraverso le cliniche mobili, ma anche di orientamento legale e sociolegale che facciamo sul terreno, raccogliamo dei dati dalle singole persone che incontriamo e dai nostri dati emerge che il 93% delle persone visitate è in condizione di regolarità giuridica, quindi è presente regolarmente sul nostro territorio. Di queste persone il 44% proveniva dai centri di accoglienza, luoghi dove in teoria si dovrebbe avviare quel percorso di inclusione sociale e quindi di conoscenza dei propri diritti di conoscenza della lingua, conoscenza del servizi sul territorio, conoscenza delle modalità di accesso al mondo del lavoro, eccetera.

Il fatto che il 44% delle persone che vivevano in quelle baraccopoli avessero avuto l’accoglienza ci dice che in questo sistema qualcosa non è andato liscio. Sicuramente non è stato un sistema che ha favorito l’inclusione sociale, o comunque lo è stato in modo del tutto carente».

Tuttavia, un punto è che non si dovrebbe arrivare lì attraverso l’accoglienza, e un altro è che siamo comunque di fronte a dei lavoratori, quindi a un sistema che in teoria è normato e prevede diritti universali. Ma scendendo sul terreno che cosa si scopre?

«Delle persone che abbiamo incontrato, soltanto il 60% aveva un contratto di lavoro. Dico “soltanto”, anche se è una percentuale molto più alta del 17% del 2013. Il problema è che tutte le persone intervistate ci parlavano di quello che possiamo definire il “lavoro grigio”: assenza di buste paga, che quasi nessuno ha mai ricevuto, non accesso alla disoccupazione agricola, versamento inadeguato dei contributi, oppure orari di lavoro che non rispettavano in alcun modo i contratti nazionali e provinciali, o ancora il lavoro a cottimo molto diffuso.

Quindi diciamo che, nonostante la presenza di contratti, effettivamente ci risulta che ci sia una fascia di lavoro grigio che testimonia anche un’assenza o comunque una carenza di controlli rispetto alle condizioni di lavoro in un settore, quello agrumicolo nella Piana di Gioia Tauro, che è in profonda crisi e sul quale non ci sono interventi e politiche strutturali per il rilancio.

Il peso di tutto ciò ricade sulle spalle dell’ultimo anello della catena, cioè dei più deboli, dei più ricattabili, delle persone che sono disposte a lavorare anche un solo giorno alla settimana per 20-25 euro, in condizioni di vita e lavoro inaccettabili».

Foto: Serena Fondelli/MEDU Flikr.com