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Europa, elezioni fragili

Mancano meno di due settimane alle elezioni europee, un appuntamento molto atteso ma, forse come mai prima d’ora, anche molto temuto. I motivi sono molti e in gran parte possono essere ricondotti a una dimensione: quella del rischio.

Da un lato quello della possibile fine di una stabile maggioranza, fondata sull’alleanza tattica tra gli europarlamentari del Partito Popolare Europeo (PPE) e il gruppo dei Socialisti e Democratici (S&D), i cui esponenti nazionali sono in grave difficoltà in diversi Paesi, come l’Italia. Dall’altro un aspetto meno legato al singolo voto, ma a una scala più generale, quella della credibilità del voto. Tra le elezioni di cinque anni fa e quelle che si stanno per tenere c’è stato un massiccio terremoto a livello globale, cominciato con il referendum sulla Brexit del 2016 e proseguito, lo stesso anno, con l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Su tutte queste vicende, così come su altre meno note, si è spesso allungata l’ombra della Russia e di attori privati che hanno sfruttato debolezze sistematiche o hanno apertamente violato la legge, riuscendo a orientare le scelte degli elettori con un’efficacia che non può essere ridotta a mera “interferenza”.

Di questo tema si occupa oggi un workshop dal titolo Le elezioni ai tempi dei social media. Elezioni europee, disinformazione, micro-targeting: che fare?, organizzato dal centro studi e testata online Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (OBCT) in collaborazione con la Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (CILD). Tra i relatori anche Giorgio Comai, ricercatore presso OBCT, secondo cui «dopo i voti del 2016 l’attenzione è sempre tutta sulle interferenze esterne, ma in una democrazia è difficile reagire a uno specifico attore esterno senza invece ragionare di più sulle vulnerabilità che sono alla base di questa supposta minaccia». Sono almeno tre i livelli di vulnerabilità che rendono queste elezioni, e più in generale il sistema democratico: la disinformazione, la trasparenza e la cybersecurity, o sicurezza informatica. «Se n’è parlato spesso – racconta Comai – quando ci sono stati hack, nel caso americano ai Democratici, oppure a Macron in Francia, però ci sono stati anche in Italia in varia forma, l’anno scorso nei confronti di entrambi i partiti che adesso sono al governo». Spesso la reazione da parte di molti commentatori è stata sprezzante, spesso orientata a evidenziare, ridicolizzandola, l’incoerenza tra la massiccia presenza digitale e la scarsa qualità della sicurezza.

Eppure la questione è estremamente seria e richiede un approccio differente. Bisognerebbe infatti, prosegue Giorgio Comai, «ragionare su come spingere i partiti ad avere delle pratiche migliori di cybersecurity, perché i partiti e le organizzazioni politiche in senso più ampio, sono strutturalmente gli elementi più vulnerabili, più ghiotti dal punto di vista degli hacker di un sistema democratico, eppure non hanno nessun incentivo strutturale a pensare alla propria sicurezza digitale. La sicurezza costa soldi, costa tempo, costa complicazioni nella gestione della comunicazione interna, quindi spesso si preferisce fare una campagna pubblicitaria in più anziché pensare a come essere tutelati. Questo si è visto appunto anche nel caso dei partiti italiani che si sono visti i propri sistemi di mail violati com’è successo anche alla Lega».

Inoltre, mettere in sicurezza un sistema richiede un approccio coerente, in cui tutti i livelli sono allineati. Eppure, la governance dei partiti italiani è spesso polverizzata tra la dimensione nazionale e quella locale, con sistemi differenti e sensibilità al tema molto variabile tra il centro e le periferie. Ma se della sicurezza informatica si è parlato in alcune occasioni, almeno di fronte ai fatti compiuti, c’è un tema pressoché invisibile, quello della trasparenza. E nonostante l’apparente gioco di parole, si tratta di una dimensione concreta e probabilmente decisiva, che tocca anche il sistema di leggi che la regolano. «Si pensa al sistema dei partiti – ricorda Comai – come al fulcro da cui tutti i flussi passano e per questo esiste una legislazione che richiede un certo livello di trasparenza rispetto ai partiti».

Ma la situazione oggi è completamente trasformata, e la legge entrata in vigore nel giugno del 2016 risulta già ampiamente superata. Oggi, racconta il ricercatore, «sono sempre più importanti le fondazioni politiche, sono sempre più importanti i gruppi di iniziativa, dunque per esempio per come lavora il Movimento 5 Stelle tante iniziative partono da gruppi locali e non dal partito, quindi anche se il partito ha pratiche di trasparenza di altro tipo, strutturalmente queste non derivano dal sistema legale che abbiamo». Allo stesso modo, anche i gruppi di ricerca e i think tank indirettamente collegati ai partiti non comunicano in modo adeguato le fonti dei loro finanziamenti, e considerando che si parla di organizzazioni che intervengono in modo diretto nel dibattito pubblico, il problema esiste. Nello specifico della campagna elettorale, il problema della trasparenza non scompare, ma diventa se possibile ancora più concreto: «la legge – ricorda Comai – richiede un alto livello di trasparenza in tempo di campagne elettorali, però lo richiede senza prendere in considerazione tutto il mondo online, quindi non viene richiesto di riportare le spese riguardanti la propaganda elettorale nel mondo digitale, sui social network».

Se individuare questi problemi è una sfida complessa, capire come affrontarli è ancora più difficile, anche perché richiede di riscoprire, in tempi di semplificazioni e slogan, il coraggio della complessità e di risposte non immediate, non lineari e certamente neppure infallibili. I ragionamenti, infatti, si muovono su diversi piani. «Nel brevissimo periodo – racconta Comai – la cosa che il legislatore italiano può fare e deve fare al più presto è aggiornare la legislazione per quanto riguarda le campagne elettorali al mondo digitale, quindi quantomeno obbligare i partiti a riportare pienamente almeno la parte ufficiale della propaganda elettorale, e quindi da questo punto di vista sia quantomeno trasparente».

Oggi infatti molta pubblicità e molta propaganda elettorale, tra cui il confine è sempre più labile, non avviene tramite i canali ufficiali di partito ma tramite pagine Facebook e profili Twitter, oppure attraverso gruppi di simpatizzanti più o meno trasparenti. Per Comai «è importante che le piattaforme siano pienamente trasparenti sia sui post sponsorizzati sia sulle pagine pubbliche oltre una certa dimensione che raggiungono un pubblico molto ampio. L’autoregolamentazione delle grandi piattaforme non sta funzionando e gli sforzi spinti dall’Unione europea sono ancora troppo poco e le analisi sono sempre parziali».

Un esempio chiaro della limitatezza dell’azione attuale è la chiusura di 23 pagine social avvenuta nei giorni scorsi, una notizia circolata molto ma che rappresenta meno di una goccia in un sistema fluido e sfuggente. Ma se si abbandona il breve periodo e si prova a guardare in prospettiva, diventa chiaro quanto le leggi non possano da sole orientare la capacità di utilizzare strumenti potenti ma delicati come i social network. Non è raro segnalare ai propri contatti la falsità delle notizie condivise e sentirsi rispondere che “comunque era interessante”, e questo è uno specchio di quanto l’utilizzo di questi strumenti venga filtrato attraverso una convinzione alimentata spesso anche dai media tradizionali, quella secondo cui ciò che avviene sui social non appartenga al cosiddetto “mondo reale”.

Eppure le conseguenze lo sono sempre di più. «Questa – conclude Giorgio Comai – è la risposta che tutti preferiscono, perché un pubblico conscio di come accede alle informazioni, di come le informazioni vengono diffuse è un primo passo importante per resistere a questi processi di disinformazione. In un recente lavoro abbiamo riscontrato una serie di siti che hanno la stessa proprietà: questi siti hanno delle pagine Facebook, alcune con centinaia di migliaia, alcune sopra il milione di like. Sono pagine probabilmente legittime nella maggior parte dei casi, ma spesso le pagine di questa rete, magari ufficialmente dedicate al cinema o alle ricette, pubblicano notizie e link ad altri siti del network, che spesso sono siti di cronaca riportata in modo più o meno adeguata, siti che hanno una determinata prospettiva politica. Spesso diamo a cuor leggero il “like” a pagine del tutto innocue, ma poi quando vediamo una determinata notizia non pensiamo perché una pagina di ricette condivida una notizia politica dalla prospettiva particolare. Inconsciamente siamo esposti a una serie di notizie in un modo che non percepiamo». Rendere il cittadino più conscio dei meccanismi che determinano questi fenomeni e più in grado di influenzare e determinare quesi meccanismi è una parte importante dell’alfabetizzazione social, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Queste elezioni europee saranno di certo un banco di prova.