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Il Federalismo europeo nella Resistenza

Il recente volume di scritti di Mario Alberto Rollier (L’Italia e l’Europa di un “pessimista attivo”. “Stati Uniti d’Europa” e altri scritti sparsi (1930-1976), a cura di Stefano Dall’Acqua e Filippo Maria Giordano. Bologna, Il Mulino, 2019) e la relativa recensione di Giorgio Tourn (Riforma n. 15, p. 4) sono un eccellente preparazione alle imminenti elezioni europee. In casa Rollier a Milano il 27-28 agosto 1943 si ritrovano Eugenio Colorni, Ursula Hischmann Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, insieme ad altri 28 federalisti, ponendo le basi del Movimento federalista europeo. L’ispirazione è quella del Manifesto redatto nell’agosto 1941 al confino di Ventotene Per un’ Europa libera e unita. Colorni, poi vittima dei fascisti, dice del Manifesto: si «poteva riassumere nei seguenti punti: esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli Stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica». Oltre a Rollier va menzionata, tra i valdesi, la presenza di Willy Jervis, poi martire della Resistenza.

Il programma di Ventotene è da mettere in dialettica con la successiva Dichiarazione di Chivassoredatta il successivo 19 dicembre 1943, in casa del geometra Edoardo Pons, con la partecipazione dei valdesi Osvaldo Coïsson, Gustavo Malan, Giorgio Peyronel e Mario Alberto Rollier, nonché dei valdostani Emile Chanoux – che pochi mesi dopo morirà nel carcere fascista – e di Ernesto Page. Mancarono all’appuntamento Lino Binel appena arrestato dai fascisti (dopo il carcere sarà deportato non facendo mai ritorno) e Federico Chabod, che inviò un suo intervento scritto. Nel documento di Chivasso si progettano per il dopo-fascismo una serie di autonomie politiche amministrative, di autonomie culturali e scolastiche con particolare riguardo alle lingue locali e alla libertà religiosa, e, infine, di autonomie economiche per lo sviluppo dell’agricoltura, dell’industria e del territorio montano. 

Mentre il Manifesto di Ventotene è un progetto di federalismo verso l’alto, con l’unione degli Stati d’Europa, la Carta di Chivasso è un progetto di federalismo verso il basso, con autonomie regionali all’interno dello Stato italiano.

Che ne è stato? Lo sappiamo in buona parte. Nel Trattato di Maastricht, che istituisce l’Unione Europea (UE – 1992) è formalizzato il principio di sussidiarietà, in base al quale «Nei settori che sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario»In buona sostanza gli Stati continuano a gestire come meglio credono la maggioranza delle competenze anche nelle materie come l’esercito, le limitazioni all’emigrazione tra gli Stati appartenenti alla Federazione, la politica estera unica e persino la moneta (vedi la sterlina nel Regno Unito). Non c’è da stupirsi se il Regolamento di Dublino del 2003 (rivisto nel 2013) addossa la responsabilità dell’accoglimento dei migranti allo Stato nel quale sbarcano anziché all’Unione europea nel suo insieme.

Le cose non stanno molto meglio all’interno dello Stato italiano.La Costituzione repubblicana aveva costruito un razionale sistema di articolazioni territoriali in Regioni, Provincie e Comuni, con uno scaglionamento di competenze proporzionato alle rispettive estensioni. L’infausta riforma del 2001 ha introdotto pure a livello nazionale il principio di sussidiarietà con un garbuglio di competenze distribuite tra Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato. «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà» (Nuovo articolo 118). La riforma, attuata per togliere spazio alla Lega Nord che voleva la secessione, ha ritenuto che l’introduzione del principio di sussidiarietà potesse soddisfare le domande di autonomia, con il risultato che è davanti agli occhi di tutti.

Che dire? Vorremmo dire tante cose. Almeno a livello di opinione possiamo almeno tornare con nostalgia alla chiarezza di intenti dei nostri antenati della Resistenza,che avevano ipotizzato bene un progetto in cui la sussidiarietà, pur non indicata con questo nome, era riservata alle materie elencate nella Carta di Chivasso, mentre l’Unione europea avrebbe dovuto avere competenza su tutto quello che non si poteva attuare su basse più ristretta. Se avessero chiesto a noi metodisti e valdesi come si fa un’unione avremmo potuto insegnare che viene bene quando si unisce tutto quello che è possibile fare in comune lasciando al corpo più piccolo solo quello che non è possibile fare insieme. La sussidiarietà, anziché un principio prescrittivo, vale come criterio descrittivo a indicare, appunto, quello che va fatto rispettando l’identità di tutti i contraenti. Tutto quello che si può fare insieme, invece, va fatto insieme.