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Liberiani liberi… per ora

Per una volta, all’amministrazione Trump giungono messaggi di apprezzamento. Gli elogi arrivano  dal Consiglio liberiano delle chiese (Lcc) e del Consiglio nazionale delle chiese di Cristo negli Usa (Ncc) per un provvedimento che, nella politica dei respingimenti e dei muri, va in direzione opposta: lo spostamento al 30 marzo 2020 della fine del programma “Ded” (Deferred Enforced Departure), che prevede il differimento dei rimpatri forzati, e tutela (si fa per dire, visto che si tratta comunque di una soluzione temporanea) 4200 liberiani presenti negli Stati Uniti.

Avviato nel 1991, nel pieno della prima di due terribili guerre civili che sconvolsero il paese tra il 1989 e il 2003, era stato concluso ufficialmente due anni fa dall’amministrazione Trump, con la motivazione che il paese «non era più in una condizione di conflitto armato», ma aveva fatto «passi significativi verso il ripristino della stabilità e della democrazia». Era stato però rinnovato, anche tenendo conto della situazione molto precaria portata dall’epidemia di Ebola nel paese (il più colpito nel 2014-2016), e avrebbe dovuto concludersi il 31 marzo di quest’anno, quando è giunta la notizia di una nuova proroga.

«Dopo ulteriori riflessioni ed esami (sono le parole del Presidente riportate sul sito del Ncc), ho deciso che è nell’interesse della politica estera degli Stati Uniti estendere di altri 12 mesi il periodo di durata… capisco che ci sono sforzi in atto da parte di membri del Congresso per fornire assistenza alla piccola popolazione di liberiani beneficiari del Ded che rimangono negli Stati Uniti. Prolungare la scadenza manterrà lo status quo mentre il Congresso prenderà in considerazione una modifica nella legislazione».

In queste settimane sono state infatti molto attive sia le chiese membri della Ncc (tra cui la Chiesa episcopale e la Chiesa metodista unita), sia la società civile e i politici, che si sono mobilitati per questo risultato, ricevendo la gratitudine di Lcc ed Ncc, e per ottenere un cambiamento legislativo. Alcune settimane prima della scadenza, 50 membri del Congresso guidati dal senatore Jack Reed e dal deputato Donald M. Payne avevano inviato una lettera al presidente chiedendo di prorogare il programma Ded, sottolineando «l’ansietà e l’incertezza legale nelle nostre comunità liberiane-americane» e sottolineando pragmaticamente il contributo anche economico che ormai da un quarto di secolo i rifugiati liberiani hanno dato agli States: «Hanno lavorato duro, rispettato le regole e sono stati sottoposti a controlli rigorosi. Sradicarli adesso sarebbe crudele e dannoso per loro, le loro famiglie e i loro datori di lavoro».

Il legame tra Stati Uniti e Liberia è da sempre molto particolare, considerando che il piccolo stato dell’Africa occidentale nacque nel 1822 come colonia di ex-schiavi afroamericani liberati, inizialmente sotto il controllo della American Colonization Society da cui poi si emancipò nel 1864.

Ora la politica e le chiese chiedono di fare di più: il senatore Reed ha presentato il Liberian Refugee Immigration Fairness Act per chiedere la possibilità di residenza permanente, e i due Consigli ecclesiastici (Ncc e Lcc) chiedono «di annullare la possibilità di deportazione per queste persone, che sono giunte negli Usa fuggendo da guerra e malattie. Esortiamo il Congresso a garantire che questa protezione sia discussa e approvata sia alla Camera che al Senato, come atto legislativo chiaro, unitario e autonomo, un atto che aprirebbe la strada verso la cittadinanza per tutti i “dreamer” e le persone che attualmente hanno lo status di “Tps” (temporary protected status, ndr) o di “Ded”». Dal caso liberiano, insomma, il discorso potrebbe ampliarsi ai molti che hanno impegnato la politica americana in questi mesi, dal Centro America al Medio Oriente. Forse nel muro si sta aprendo una breccia.

 
Foto via Pixabay