foto_giuseppina_bagnato

Latte e datteri

Il viaggio di incontro culturale in Marocco «Donne in dialogo tra le due sponde del Mediterraneo»(23-31 marzo) ha riunito un gruppo interreligioso formato da: Giuseppina Bagnato, pastora della Chiesa valdese di Rimini, Raffaella Sutter, sociologa, per oltre 30 anni dirigente del Comune di Ravenna, esperta in politiche sociali e di sviluppo di comunità, politiche di genere e cooperazione internazionale, Latifa Boumamol dell’associazione Tamkin – Donne Marocchine in Italia, Marisa Iannucci, islamologa, dell’associazione di donne musulmane Life Onlus, e altre donne, suore, insegnanti, operatrici in servizi sociosanitari. Molti gli incontri: Centro studi per la famiglia di Casablanca, associazioni che si occupano di donne con disagio e marginalità sociale, donne parlamentari ed esponenti dei partiti PJD (di ispirazione islamica, al governo) e Istiklal (partito nazionalista, all’opposizione), Istituto femminile Aysha Umm al mu’minim di scienze coraniche, donne teologhe, predicatrici e lettrici del Corano. Abbiamo chiesto alla professoressa Sutter e alla pastora Bagnato di raccontarci questa esperienza.

Qui di seguito l’articolo della pastora Bagnato.

La prima volta che ho ascoltato una lezione di Chimamanda Ngozi Adiche è stato grazie a una giovane donna afroitaliana di cui apprezzo l’ironia e la capacità non comune di guardare a sé stessa come un “io” segnato da mille impronte e altrettante storie che rivendicano un ruolo nella sua vita. Non so quanto la mia giovane sorella sia cosciente di tutto ciò, ma vedo in lei un presente che ha coordinate e priorità lucide e altrettanto concrete. Riconosco alla sua generazione una maturità dal profumo intenso che non potrà essere eluso ancora per molto. Scrivo questo perché anche dietro alla questione dei diritti e del genere c’è sempre il rischio di non comprendere l’importanza della pluralità. Ci si avvicina alla completezza tanto più si riconosce la necessità di accettare tutte le letture con pari dignità e potere di rappresentanza. 
L’errore dell’occidente è quello di credere che quell’unica voce bianca possa aiutare le altre sorelle “più sfortunate” ad emanciparsi dal maschio e da una fede oppressiva. 
Quando sono partita per Il mio viaggio in Marocco, questo pericolo era moltiplicato per il numero delle partecipanti. Ognuna partiva con la sua idea di Islam, di ruolo delle donne, di potere. Nella Biblioteca Accademica del re Abdul-Aziz Al-Saoud di Casablanca, un titolo mi ha colpito fin troppo su uno scaffale: Come spiegare l’orientalismo agli arabi. Ero stordita dal rumore dei miei pensieri. Come spiegare al mondo accademico arabo quel complesso di idee sul Medio Oriente e sull’Asia orientale e sud-orientale, che descrivono ancora oggi le loro terre come misteriose, ferme e incapaci di cambiare se non grazie all’aiuto degli occidentali. Non ci avevo mai pensato così. Lo sguardo stretto lo avevo sempre percepito quale risultato della mancanza o del rifiuto dello studio, ma ora quel titolo in francese e arabo che continuavo a leggere da sinistra a destra e da destra a sinistra, mi chiedeva: “E della tua lettura cosa mi dici?” Il pericolo di una singola storia ronzava ancora nella mia testa.  
Nella mia valigia per il Marocco portavo con me storie vere ma poco note. Storie di donne musulmane in Italia di nazionalità e tradizioni diverse accomunate dallo studio, dal volontariato e dall’attivismo: da un grande coraggio. Ma la mia era soltanto una storia di periferia che riuscivo e riesco a restituire di tanto in tanto nella sfera pubblica perché ho un vantaggio: sono bianca e sto nella chiesa dei “progressisti”. Racconto dei loro traguardi perseguiti per tutta la nostra società (dal lavoro nelle carceri al reinserimento sociale, alla mediazione sanitaria, agli studi e all’educazione) che non avrebbero bisogno di una portavoce per essere credibili. Sono donne che sfidano il patriarcato dall’interno e nella sfera pubblica italiana vengono screditate da chi non vuole che le cose cambino e sì, per questo sento che il loro percorso è anche mio e della nostra fede comune. Quello che sento è che ancor prima di sembrare diverse, siamo simili. Dopo essersi intrecciato, il nostro sentiero si è allargato ma le loro storie continuano letteralmente ad essere poste sotto un velo: un espediente logoro a dimostrazione della tesi di un’oppressione. La loro scelta di fede le mette per la seconda volta in un angolo. Il patriarcato della propria religione si oppone al riconoscimento di una parità intellettuale, di indipendenza economica, educazione, famiglia e la società occidentale le ritiene bisognose di emanciparsi perché non esibiscono la loro sfera privata. Mi interrogo così sullo sguardo del potere, dei vari modi in cui una cultura non sa abbracciare le tante storie. 
I giorni del nostro viaggio sono casualmente toccati dalla visita del papa in Marocco. Il paese del re Muhammad VI si definisce in quei giorni, attraverso le parole della BBC, come “il bastione dell’Islam moderato”.  E di bastioni ne abbiamo visti e tanti, fra Casablanca, Rabat e Tangeri, ma fra i bastioni c’erano anche tanti ragazzini mezzi nudi che sniffavano colla e una povertà che a camminarci in mezzo ti torce lo stomaco e aggredisce le narici. Il miracolo della nuova monarchia, quella monarchia che deve essere ripetuto in ogni contesto per legge “Tutti vogliamo” e che impone una limitazione di libertà alla tradizione (così le donne che lavorano nei settori pubblici non possono usare il velo e devono avere un’aria il più possibile occidentale per favorire il business), continua a occuparsi della crescita economica e del prestigio internazionale demandando alla fede islamica l’intervento sociale. Tutte le donne che abbiamo incontrato erano capaci di porre al servizio dello Stato le loro competenze intellettuali, economiche e formative per un cambiamento. In quanto stato islamico, la questione della cura è un aspetto che riguarda la comunità: ogni musulmano. Tante delle nostre intervistate erano in partenza o rientravano da commissioni per le Nazioni Unite e quelle che lavoravano in alcuni stati europei nella mediazione e nell’ambito dei diritti umanitari erano molto preoccupate dei racconti che quotidianamente ascoltavano dai protagonisti transitati dall’Italia. Il Marocco che quelle donne incarnano è una società in fermento, con una classe media in crescita e una migrazione all’estero che rispecchia le caratteristiche culturali del paese in cui si migra: più organizzati, produttivi e attivi laddove il nuovo stato di residenza valorizza le competenze. Ma è anche uno stato che accoglie immigrati dall’area subsahariana e nella nostra delegazione dall’Italia c’erano tante donne che rappresentavano un ponte fra le due sponde del Mediterraneo. Diverse di loro si muovono nei corridoi delle carceri e incontrano una gioventù arrivata in Italia e presto finita nel giro della piccola criminalità. Nel carcere dove tutto si problematizza e peggiora, ascoltare una storia può essere l’inizio di una guarigione. Ogni incontro del nostro viaggio era segnato da tanta ospitalità: pasti in abbondanza, candele, petali di rose e tanto tea alla menta: una cerimonia precisa che si rinnovava più volte al giorno. Una sera Suor Lucia, Patrizia e l’organizzatrice del viaggio, Latifa, sono entrate in casa di una delle tre famiglie marocchine che a ogni costo hanno voluto invitarle a cena per ringraziarle del lavoro fatto in Italia con i propri ragazzi, passati dal carcere alle comunità. Sul pianerottolo c’era il segno più importante di ospitalità: latte e datteri. Vorrei credere che ogni storia che incontriamo possa essere accolta con latte e datteri. Vorrei credere che a un certo punto ci renderemo conto della ricchezza che le migrazioni portano con sé. Voglio credere che riscopriremo che siamo parte del Mediterraneo e daremo di nuovo valore alla lentezza: per ascoltarci e pasteggiare assieme. Voglio ricordare anche al cristianesimo che tutto iniziò con un gesto di ospitalità presso le querce di Mamre e credere che questo viaggio abbia insegnato ad andare aldilà della singola storia perché ogni storia va estesa ed arricchita per comprendere pienamente. Alla mia giovane sorella afroitaliana chiedo di porgerci la mano e guidarci con la sua generazione verso questa scoperta. I tempi sono maturi e queste storie sono già le nostre: sono storie di donne e uomini che già camminano insieme. 

 

 

La scritta nella foto: Marhaba bikum, benvenuti (Foto: G. Bagnato)