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Caporalato, un reato negato

Martedì 9 aprile la Corte d’assise d’appello di Lecce ha assolto 11 su 13 persone condannate in primo grado nell’ambito del processo Sabr, per lo sfruttamento dei braccianti impiegati dal 2008 al 2011 nella raccolta di prodotti agricoli nelle campagne di Nardò, in Puglia.

La nuova decisione dei giudici ha ribaltato la sentenza del 2017, una sentenza storica con cui i giudici avevano attribuito a 13 imprenditori e intermediari i reati di associazione per delinquere, intermediazione illecita di manodopera, estorsione, violenza privata e più in generale avevano riconosciuto l’esistenza di «una struttura criminale articolata, finalizzata al reclutamento di cittadini extracomunitari da destinare allo sfruttamento lavorativo nel settore agricolo»: in una parola, il caporalato, un sistema che si regge non tanto, o non solo, sulla discriminazione su base etnica, ma su quella di potere. Un insieme di fragilità sociale, vulnerabilità e ricattabilità dei lavoratori costituiscono ancora oggi un sistema complesso da contrastare e affrontare, che fino al 2011 non era regolato da una normativa specifica, ma riportato alla fattispecie di riduzione in schiavitù.

Nel 2017, invece, per la prima volta veniva riconosciuto in una sentenza il reato di riduzione in schiavitù in un procedimento giudiziario concernente il mondo del lavoro.

Il 9 aprile, tuttavia, i giudici hanno ribaltato la prima sentenza, accogliendo la tesi della difesa secondo cui il reato di schiavitù, all’epoca dei fatti, sebbene fosse previsto dal Codice Penale non era ancora disciplinato dalla legislazione italiana. Il problema è che la legge contro il caporalato risale nella sua prima versione al 2011, poi perfezionata cinque anni dopo con la legge 199/2016. Nella cosiddetta Legge Martina, dal nome dell’allora ministro dell’Agricoltura, si intende il fenomeno del caporalato come intermediazione illegale e sfruttamento lavorativo.

«Siamo abbastanza delusi», commenta Yvan Sagnet, ingegnere ed ex bracciante, che guidò la rivolta di Nardò nel 2011 e ora è presidente della Rete NoCap. «Siamo arrabbiati perché pensiamo, come parti civili e come lavoratori, che il fatto ci sia: noi abbiamo subito nelle campagne questo tipo di reato».

Di che tipo di reato parliamo?

«Di qualcosa che non è diverso dalla schiavitù moderna. L’articolo 600 del Codice penale è molto chiaro e molto semplice: la riduzione in schiavitù non è più concepita come quattro secoli fa, dove si trattava di privazione della libertà con le catene, ma qui le nuove forme di schiavitù vengono circoscritte dentro un sistema per cui il soggetto, la vittima, lo schiavo, subisce continuamente un sistema di vulnerabilità continuativa.

Nel nostro caso erano persone vulnerabili, erano migranti, alcuni irregolari, i cosiddetti clandestini, che molto spesso venivano vessati, sfruttati, picchiati dai caporali e dai datori di lavoro».

Che giudizio può dare su questa sentenza?

«È veramente incomprensibile, penso sia un insulto alla civiltà. Non riesco a capire perché delle persone, i caporali e i datori di lavoro, vengano assolte da ogni forma di accusa sapendo che da trent’anni nella zona di Nardò esercitavano un sistema criminale che li vedeva commettere ogni forma di reato, a partire proprio dalla riduzione in schiavitù».

Non teme che una sentenza come questa rischi di creare un precedente e che di conseguenza disincentivi alla denuncia delle violenze subite?

«Esattamente, questo è il messaggio che lancia questa sentenza. In futuro queste persone così vulnerabili non avranno più la forza di denunciare, penseranno che non serva a niente. Ricordo che in Italia ci sono circa 400.000 lavoratori, tra italiani e stranieri, che sono vittime di caporalato e di schiavismo nelle nostre campagne. Molti di loro spesso non hanno il coraggio di denunciare per la paura di subire ritorsioni».

Ma voi nel 2011 avete invece scelto di denunciare, di non rimanere in silenzio.

«Siamo stati molto coraggiosi a denunciare i nostri aguzzini, abbiamo subito varie forme di minacce, anche fisiche, anche minacce di morte. Però credevamo alla giustizia, pensavamo che questa azione di denuncia potesse riportare giustizia all’interno del sistema che vedeva sempre  vincenti i più forti, in questo caso i caporali e i datori di lavoro. Con questa sentenza ora sarà molto difficile andare a convincere queste persone che vengono sfruttate a denunciare e questa è una grande delusione, è un passo indietro. Io rispetto la giustizia italiana, però questa decisione è veramente incomprensibile, noi non la accettiamo».

Lo sfruttamento dei braccianti abbraccia almeno tre piani di analisi: quello giudiziario, quello dei diritti sul lavoro e della questione sindacale, e poi tutta l’ampia sfera delle filiere. Nel 2016 si era arrivati a una nuova legge, la legge Martina, che cercava almeno di comprendere in parte questo fenomeno. E oggi?

«Abbiamo fatto dei passi in avanti: teniamo conto che la legge sul caporalato fino a dieci anni fa non esisteva e il reato di caporalato viene introdotto nel nostro codice penale nel 2011 in seguito allo sciopero di Nardò, poi successivamente questa legge è stata completata, come abbiamo voluto, dalla legge Martina. Nel 2011 la prima versione si limitava soltanto a colpire il caporale, mentre noi evidenziavamo che il caporale è soltanto l’ultimo anello di una catena di sfruttamento che vede al centro i datori di lavoro, quindi la legge Martina ha introdotto la responsabilità in solido del datore di lavoro e questo è stato un passo in avanti. Dal 2016 a oggi le cose si sono complicate perché una parte di questa legge, che viene disattesa e noi vogliamo fortemente che venga attuata, riguarda la parte preventiva. Questo fenomeno non verrà contrastato soltanto con la repressione, anche se la magistratura e alcune realtà stanno facendo un lavoro enorme per incentivare le denunce affinché chi commette questo reato venga arrestato».

Si dice sempre che la prevenzione è fondamentale per contrastare l’illegalità. In questo caso in che cosa consiste, almeno secondo la legge?

«C’è un articolo che si chiama tecnicamente “Rete del lavoro agricolo di qualità” che introduce tutta una serie di misure preventive. Ecco, è lì che c’è un problema, e qui abbiamo chiesto alle autorità di applicarla. Il problema è che dall’insediamento di questo nuovo governo la battaglia sul caporalato ha subito un freno enorme, perché c’è un approccio diverso: c’è chi pensa, il ministro dell’Interno in questo caso, Matteo Salvini, che il caporalato si affronti con le ruspe, che basti andare nei luoghi di sfruttamento, nei ghetti nelle campagne, e sgomberare gli insediamenti di migranti lavoratori stagionali, per risolvere il problema del caporalato. Non è così, per noi è un approccio propagandistico che rimanda il problema ma non lo risolve. I ghetti sono solo la conseguenza di un sistema, quindi bisogna andare a intervenire sulle cause reali che portano al caporalato. Prima di tutto è una questione di giustizia: l’illegalità viene commessa non dagli sfruttati ma dagli sfruttatori, quindi riguarda i caporali, i datori di lavoro, la criminalità organizzata. Sono loro i principali responsabili, quindi sgomberare con le ruspe è solo propaganda».

A questo va aggiunto un aspetto che non riguarda solo lo sfruttamento, ed è quello delle filiere alimentari, che cominciano nei campi e finiscono in gran parte nella grande distribuzione organizzata, uno dei soggetti che hanno davvero il potere di cambiare le cose. In questo senso a che punto siamo?

«Il governo precedente aveva cominciato ad affrontare sul tema parlando di etichettatura, mentre questo non sta facendo nulla. Noi pensiamo che sia un aspetto fondamentale, perché fin quando la grande distribuzione continuerà a imporre i prezzi dei prodotti ai produttori, sarà molto difficile contrastare il caporalato. Alcuni agricoltori scaricano sui lavoratori i prezzi fatti a monte. Per esempio, recentemente è stato adottato il prezzo del pomodoro per la prossima stagione e le multinazionali l’hanno fatto unilateralmente senza concordare il prezzo come al solito con i produttori. E a quel prezzo sarà veramente difficile per alcuni dei contadini sostenere alcune spese, tra cui il costo del lavoro. Non è una giustificazione, però è un aspetto molto importante da tenere in considerazione».