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La fuga delle domestiche bengalesi dall’Arabia Saudita

Non si arresta la fuga delle ragazze del Bangladesh andate in Arabia Saudita per lavorare come domestiche. Martedì 66 giovani lavoratrici sono arrivate all’aeroporto internazionale di Dacca, dove il 27 febbraio erano rientrate già altre 90 ragazze. Ad aggiornare i numeri di questi arrivi è l’associazione Brac, una Ong che si occupa di recuperare e curare le migranti che riescono a scappare dai luoghi di tortura. Secondo quanto dichiarato ad Asianews da Shariful Hasan, direttore del programma Migrazione di Brac, «sono state tutte torturate dai datori di lavoro».

Con quest’ultimo arrivo, il numero delle lavoratrici migranti rientrate dall’inferno saudita è salito questo mese a 200, che si vanno ad aggiungere alle 182 ragazze riuscite a fuggire nel mese di gennaio. 

Secondo l’Ong tra il 1991 e il 2018 circa 700mila donne si sono recate all’estero in cerca di un impiego. Il Bangladesh è uno dei maggiori esportatori di manodopera, con un record di un milione di persone che vanno all’estero per lavorare nel 2017 e il denaro inviato in patria è la seconda fonte di guadagno in valuta estera del paese dopo la produzione di abbigliamento. Quelli che hanno la fortuna di recarsi negli Stati Uniti o in Europa, conducono delle vite difficili ma dignitose. Coloro che vanno nei Paesi mediorientali spesso al loro arrivo trovano l’inferno, in particolare le migranti donne.

Nel 2015 i governi di Dacca e Riad hanno firmato un accordo per l’invio di domestiche, facendo lievitare il numero delle lavoratrici da 20.000 nel 2015 a 83.000 nel 2017. Si tratta soprattutto di ragazze povere delle zone rurali, che nel lavoro all’estero vedono una possibilità di riscatto delle penose condizioni di vita delle campagne bengalesi. Da quell’anno però, sono circa 5mila le donne che hanno deciso di fuggire.Secondo i dati del programma Migrazione di Brac l’anno scorso circa 1.300 donne sono tornate dall’Arabia Saudita, denunciando torture, violenze sessuali, mancato pagamento dello stipendio pattuito all’arrivo con il datore di lavoro. Inoltre, riferiscono di non adattarsi alla cultura locale, che vuole le donne sottomesse agli uomini.