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Luci e ombre sul Mediterraneo

«Nonostante la repressione, il 2018, così come il 2017, ha visto alcuni limitati sviluppi positivi a livello legislativo e istituzionale a proposito dei diritti delle donne e di contrasto alla violenza di genere». Con queste parole si apre il nuovo rapporto sui diritti umani in Medio Oriente e Nord Africa elaborato da Amnesty International e pubblicato a fine febbraio. Il riferimento è soprattutto alle timide speranze che arrivano da Libano e Tunisia, dove si vedono i primi spiragli di trasformazione nelle normative e negli atteggiamenti nei confroti delle relazioni tra persone dello stesso sesso. A Beirut, infatti, un tribunale ha stabilito che i rapporti consensuali tra persone dello stesso non possono costituire reato, mentre a Tunisi è approdata in Parlamento una proposta di legge per la depenalizzazione delle relazioni omosessuali.

Se da questi due Paesi arrivano segnali incoraggianti, per quanto parziali, la situazione generale dell’area rimane quella di persecuzioni per le persone Lgbti da parte di governi e tribunali: dall’Oman all’Egitto, dalla Palestina all’Arabia Saudita, le testimonianze parlano di arresti e maltrattamenti basati esclusivamente sull’orientamento di genere, reale o percepito.

 

Proprio dell’Arabia Saudita si è parlato molto, non soltanto in Italia, a proposito dei diritti delle donne e della fine del divieto di guidare un’auto nel territorio della monarchia wahhabita, un cambiamento normativo che il rapporto di Amnesty definisce come un «riconoscimento per il coraggio delle donne che hanno difeso i propri diritti», che per decenni hanno cercato di sensibilizzare sulla loro condizione affontando i diviei e le persecuzioni. Tuttavia, si tratta di una riforma ancora incompiuta, perché per ogni altra attività, come studiare, cercare un lavoro o viaggiare, le donne hanno ancora bisogno del permesso di un guardiano di sesso maschile. Il caso dell’Arabia Saudita, al pari di quanto accade in Egitto e Iran, rappresenta un caso-limite, ma in tutta la regione ci sono ampie aree di discriminazione sistematica basata sul genere, in particolare a proposito del diritto di famiglia e della prevenzione della violenza domestica. A preoccupare sono soprattutto le zone in guerra, come la Libia, dove le autorità  non hanno alcun potere di impedire la violenza di genere da parte delle milizie e dei gruppi armati, sia nei confronti delle donne libiche sia, in modo ancora più radicale, nei confronti di chi proviene dai Paesi dell’Africa subsahariana.

 

Ci sono però anche segnali positivi: tra il 2017 e il 2018 in Palestina, Giordania, Libano e Tunisia sono state cancellate le norme sul cosiddetto “matrimonio riparatore”, che consentivano ai sospettati di stupro di evitare di essere incriminati se avessero deciso di sposare le loro vittime.

 

Tuttavia, il 2018 verrà ricordato soprattutto per due grandi fenomeni repressivi: l’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, in Turchia, lo scorso 2 ottobre, e per l’uccisione di almeno 200 manifestanti palestinesi da parte delle forze di sicurezza israeliane durante la cosiddetta “marcia del ritorno” portata avanti a partire da marzo 2018 nella Striscia di Gaza, uno tra i luoghi più isolati e sovrappopolati al mondo. Nelle manifestazioni si chiedeva proprio a Israele di alleggerire il blocco sulla Striscia.

A questo proposito, giovedì 28 febbraio la Commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni unite sulle proteste nei territori palestinesi occupati, guidata dall’argentino Santiago Canton, ha affermato che i militari israeliani hanno violato la legge internazionale, commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità «poiché i cecchini hanno preso di mira bambini e persone facilmente identificabili come operatori sanitari e giornalisti». L’inchiesta era stata commissionata dal Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite e ha indagato sulle uccisioni avvenute dall’inizio della protesta fino allo scorso 31 dicembre, ma le proteste stanno per ricominciare.

 

In generale, l’uso della forza per reprimere il dissenso è sistematica sia sulla sponda meridionale che su quella orientale del Mediterraneo. La violenza delle forze di sicurezza nei confronti dei manifestanti è stata  particolarmente grave in Iran, dove decine di migliaia di persone sono scese in strada per protestare contro povertà, corruzione e autoritarismo. Qui la polizia ha usato proiettili, lacrimogeni e cannoni ad acqua, provocando numerosi morti e feriti.

In Egitto, Iran e Arabia Saudita, spiega il rapporto, la stretta sugli attori della società civile e oppositori politici è sempre più forte, con sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie sempre più diffuse e giustificate con politiche anti-terrorismo utilizza spesso anche per ridurre al silenzio giornali e giornalisti. Nei momenti di particolare tensione, anche un Paese come la Giordania, considerato un esempio di stabilità nell’area, ha preferito bloccare l’accesso ai social media per indebolire le proteste scoppiate per le difficoltà economiche.

 

Un discorso a parte va fatto per profughi e sfollati interni, vittime delle guerre in Libia, Yemen e Siria e dallo stato permanente di conflitto nelle aree dell’Iraq occupate dal Daesh (o Isis) fino allo scorso anno. In Iraq sono quasi due milioni le persone che hanno perso o abbandonato la propria casa e molti di loro non ci sono potuti rientrare a causa dei propri legali, veri o presunti, con i miliziani del Daesh. Per chi ha fatto ritorno a casa, non sono rare le minacce e gli abusi. Sono in particolare le donne a pagare il prezzo più alto: sistematicamente violentate dalle forze di sicurezza, sono considerate alla stregua di appestati con i quali i legami vanno recisi.

È la Siria, tuttavia, il luogo in cui gli sfollati interni rappresentano l’emergenza più grave: dall’inizio del conflitto nel 2011 sono almeno 6,6 milioni le persone che si sono spostate internamente, principalmente nella periferia di Damasco, la zona più sicura del Paese, che copre un’area sempre più grande e in cui l’accesso ai servizi essenziali non può essere garantito e dove la cooperazione internazionale fa fatica a intervenire.

 

Nel rapporto firmato da Amnesty International si evidenziano alcuni piccoli miglioramenti per i rifugiati siriani in Libano, che grazie a una iniziativa del governo libanese hanno la possibilità di registrare le nascite con meno complicazioni. Tuttavia, per gli oltre cinque milioni di profughi siriani in Libano, Giordania e Turchia, la situazione rimane estremamente precaria. Allo stesso modo, chi tra i rifugiati ha deciso di tornare in Siria non ha trovato in molti casi le condizioni che le Nazioni Unite ritengono essenziali per ricominciare: spazio, sanità e sicurezza.

 

Un quadro fatto di luci e ombre, insomma, in continua ma lenta evoluzione e che descrive una regione in cui ogni Paese racconta una storia a sé, ma in cui piccoli cambiamenti in un luogo possono condurre a grandi trasformazioni nell’intera area, tanto in positivo quanto in negativo.