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In carcere a 12 anni?

Lo scorso 7 febbraio è stato presentato alla Camera il disegno di legge numero 1580, con cui si propone una modifica della legge 448/88, che norma il processo penale per i minori, introducendo l’abbassamento dell’età imputabile da 14 a 12 anni, così come l’eccezione alla regola della diminuzione di pena nel caso del reato di associazione mafiosa commesso dai minorenni. Il disegno di legge si inserisce, secondo i proponenti, nel quadro di un più duro contrasto alla criminalità organizzata e alla necessità di rispondere a quella che viene ritenuta una situazione di insicurezza portata dal fenomeno delle cosiddette “baby gang”. Tuttavia, le statistiche sui reati minorili non sembrano confermare questa percezione. L’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia ha subito criticato questa proposta, affermando che «i presupposti su cui poggiano le considerazioni dei proponenti la modifica legislativa non trovano riscontro nei dati a disposizione del Ministero della Giustizia» e allo stesso tempo sottolineando che, di fronte a un esame dei dati di altri Paesi, «emerge una situazione della giustizia penale minorile italiana stabile quanto ai numeri, se non in calo, e in ogni caso di gran lunga meno allarmante di quella relativa a sistemi giudiziari che hanno da tempo fissato un’età per la punibilità penale molto precoce come il Regno Unito, la Francia, gli Stati Uniti, l’Olanda».

 

Ampliando lo sguardo, è abbastanza chiaro come la proposta si inserisca in modo coerente nella logica di questa legislatura e dell’attuale ministro della Giustizia, sostenitore delle misure detentive come principale strumento dell’azione penale e in questo supportato anche dagli esponenti della Lega. Eppure, l’idea di condurre in carcere, seppur minorile, dei ragazzini di dodici anni, suscita più di una perplessità. «Io credo – afferma Susanna Marietti, coordinatrice dell’Associazione Antigone, che si occupa di diritto e diritti nel sistema penale italiano – che dei ragazzini di 12 anni possano vivere situazioni problematiche alle quali possono rispondere anche con condotte non appropriate, ma gli adulti siamo noi: noi dobbiamo fare in modo, con un progetto educativo complessivo e serio, di riportarli su un’altra strada e di spiegargli che non si fa, come facciamo con i nostri figli, non di pensare di metterli in carcere».

 

Il sistema della giustizia minorile in Italia è spesso citato come esempio positivo a livello europeo. Potrebbe funzionare anche in forma più estesa?

«La giustizia minorile lavora su personalità in evoluzione di ragazzi che comunque sono considerati capaci di intendere e di volere. Tra l’altro il magistrato nella giustizia minorile deve fare obbligatoriamente una valutazione caso per caso della capacità di intendere e di volere fra i 14 e 18 anni prima di procedere con il procedimento penale. Abbiamo invece valutato che prima dei 14 anni il ragazzo non sia capace di rispondere delle proprie azioni, perché questa personalità in evoluzione non è arrivata neanche al punto di non essere totalmente influenzata dal contesto familiare, sociale, che ha intorno. Quel sistema ha funzionato per la categoria per il quale è stato costruito, mentre non potrebbe funzionare al di fuori da quella».

 

Questo disegno di legge può davvero diventare norma?

«Diciamo che il Movimento 5 Stelle sembra realisticamente che lo voglia appoggiare, era qualcosa che era già stato ventilato in precedenza, quindi le possibilità formali ci sono. In realtà poi quello che è successo nella storia è che dal 1988 ad oggi, cioè dall’anno in cui è stato approvato il codice di procedura penale minorile che ha dato vita a quel modello di giustizia minorile in Italia che noi conosciamo, più volte si è parlato di una riforma in senso restrittivo, e una delle componenti era proprio quella di abbassare l’età imputabile. Si è detto anche che i ragazzini delinquenti ormai sono adulti già a 12 anni, non si capisce su quale base, ma poi c’è sempre stata una forte messa di traverso da parte di chi quel sistema lo agisce, da parte dei giudici minorili, da parte di tutti gli operatori delle comunità penitenziali, che ha fatto da argine culturale per cui poi di fatto non si è mai osato. Spero che anche questa volta le cose vadano così, cioè che si sia fatta la voce grossa per avere un po’ di pubblicità ma che poi non ci si voglia mettere davvero contro quel mondo e quindi poi si lasci andare il disegno di legge su un binario morto».

 

Per chi lavora intorno al carcere che stagione politica si sta vivendo? A che livello si trova in questo momento il dialogo istituzionale?

«Abbiamo visto quello che è successo con la riforma penitenziaria: nel passaggio dal vecchio al nuovo governo è stato cancellato dalla riforma tutto ciò che riguardava l’ampliamento di una pena differente da quella carceraria, dell’area di tutte le misure alternative alla detenzione, perché per questo governo il carcere è l’unica pena possibile. Secondo questa logica bisogna usare le politiche penali il più possibile e all’interno delle politiche penali bisogna usare il la pena carceraria, mentre è come se non ne esistessero altre. Il dialogo, quindi, è fermo a questo e non si riesce ad andare avanti».