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The Mule

Che la droga vada di moda in questo momento al cinema è ormai assodato: dalle fortunate e curate serie di Netlfix ai tentativi meno riusciti di cavalcare quest’onda (Escobar – Il fascino del male su tutti) che è nata sul mito proprio di Pablo Escobar, forse il più grande narcotrafficante della storia, ucciso, nel 1993, a Medellin (Colombia).

Sono stati i cartelli di Medellin e Cali a invadere il mercato americano (e poi europeo) con la cocaina negli anni ’70 e da allora il consumo è sempre andato aumentando portandosi appresso una scia di violenza, sangue e morte e un giro inimmaginabile di denaro. Clint Eastwood, con il suo ultimo lavoro cinematografico The mule – Il corriere uscito nel 2018 nelle sale statunintensi e da pochi giorni in quelle italiane, si inserisce in questo mondo fatto di polvere bianca, AK 47, biglietti da 100 dollari, violenza e illegalità. Lo fa entrandoci in punta dei piedi, raccontando il mondo del narcotraffico dal punto di vista di un corriere. La storia è quella di Earl Stone un ottantenne floricoltore che si ritrova sul lastrico e accetta di portare da una città a un altra dei carichi. Senza farsi e fare troppe domande.

Ma la storia è vera e al posto di Stone (Eastwood) c’è stato tal Leo Sharp di cui si conosce ben poco se non che combattè in Italia durante la Seconda guerra mondiale e che a fine anni ’90, dopo una vita a creare e commerciare fiori divenne uno dei più importanti corrieri della droga del cartello di Sinaloa (Messico). I primi carichi furono di soldi, spostati da una città all’altra e poi passò alla droga, costrunendosi una piccola fortuna (1000 dollari a chilo la tariffa). Tata (nonno, questo il suo soprannome) venne arrestato dalla Dea (Drug Enforcement Administration) nel 2011 con oltre 100 chili di cocaina nel suo furgone (e fate voi il conto di quanto avrebbe guadagnato da un singolo viaggio…).

Eastwood racconta la storia di questo insospettabile anziano corriere interpretandolo (insicuro nella camminata, ostile alla tencnologia ma affidabile nella guida) e prendendosi tutta la scena nonostante a fianco di lui abbia chiamato a recitare attori del calibro dell’American Sniper Bradley Cooper, di Dianne Wiest, di Andy Garcia e di Laurence Fishburne. Qualche pecca nella sceneggiatura ma come sempre il film risulta piacevole ed è una scusa per raccontare tutt’altro che il mondo della droga. C’è la storia di un uomo che ha scelto il lavoro come motivo di vita tralasciando la famiglia e che negli ultimi anni di vita cerca una sorta di redenzione; c’è la fotografia di un’America piena di contraddizioni, di tensioni, di odi razziali (lo sceriffo che dice ai messicani «Cosa ci fate nella mia città» nè è un emblema) e poi ci sono i classici cavalli di battaglia di Eastwood: le auto (un richiamo particolare a Gran Torino), le guerre statunitensi (che sia Iraq oppure reduci della Guerra di Corea) e il suo essere burbero e apparentemente duro e ingiusto.

Rimane aperta però la questione del traffico e del consumo di droga. E prima o poi i governi dovranno prendere una decisione al riguardo…

Foto: Clint Eastwood leaving the press conference for “Letters from Iwo Jima”, Hyatt Hotel, Potsdamer Platz, Berlin