convegno

Giustizia e informazione, quante storture

Giustizia, politica, informazione. Questo il titolo del convegno organizzato a Torino dal Centro Culturale Protestante presso l’Unione Industriale il 31 gennaio 2019.

Un tema importante e attuale che ci interroga come cittadini e come credenti, è stato sviluppato dal magistrato Piercamillo Davigo e dal giornalista Saverio Lodato; purtroppo il magistrato Antonino di Matteo non è potuto essere presente per motivi familiari.

Il vicepresidente del Centro Culturale, il pastore Paolo Ribet  ha aperto il convegno, moderatore il dottor Avernino di Croce.

Il pastore Ribet, nella sua introduzione ci ricorda che: la fede non è un’astrazione dalla vita reale da contrapporre ad una vita spirituale, anzi la realtà della fede incarnata in Gesù Cristo è la fede che entra nella Storia dell’umanità. Inoltre non possiamo dimenticare che il Signore ha donato ad Israele, durante l’attraversata del deserto, la Legge: il suo rispetto e la sua osservanza sono alla base delle relazioni di un popolo.

La scelta di un tema di discussione non strettamente teologico non deve sorprendere, ma confermare il nostro “modo” di intendere la fede: una fede vissuta e spesa nel tempo e nel luogo in cui siamo chiamati a vivere.

«Questo è un Paese a legalità limitata!»  Così inizia l’intervento di Piercamillo Davigo,  il quale ci illustra il ruolo che ha assunto la magistratura in Italia.

«In stazione viene dato questo annuncio: si ricorda ai signori passeggeri che è severamente vietato fumare.  Una cosa non può essere vietata, un po’, tanto o tantissimo. E’ vietata o non è vietata!»

A partire da questo esempio possiamo capire il nostro rapporto con le regole e con le leggi. In un paese dove vi è una larghissima violazione delle leggi, i magistrati sono mal tollerati dai cittadini proprio perché sono preposti a far rispettare le leggi.

Tre sono i fattori che hanno influenzato il ruolo della magistratura: il terrorismo italiano, la criminalità organizzata e la devianza delle classi dirigenti.

Le leggi sui pentiti (diritto premiale) sono state introdotte nel nostro ordinamento per contrastare prima il terrorismo e poi la criminalità organizzata. Queste normative hanno contribuito a modificare in modo sostanziale il ruolo della magistratura: i magistrati prima ricevevano dalla polizia giudiziaria (carabinieri, polizia, ecc.) le informazioni di reato ora, grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono i magistrati ad acquisire le notizie e le prove di reato e a trasmetterle alla polizia giudiziaria e quindi ad avviare le indagini. Ovvero un sostanziale rovesciamento del flusso informativo.

La Costituzione prevede delle garanzie per la magistratura, ad esempio sono inamovibili, e questo fa sì che i magistrati possano indagare anche i politici e l’inchiesta Mani Pulite ne è un esempio evidente. Diversamente la polizia giudiziaria non ha queste garanzie e nel caso di un indagine “scomoda”  il carabiniere può essere trasferito e non può opporsi .

Questo, evidentemente ha creato forti tensioni con il mondo politico.

Anche con la criminalità organizzata, le leggi sui pentiti hanno permesso di ottenere grandi risultati e di far emergere zone di contiguità “area grigia” tra criminalità organizzata e livello politico.

La frizione con il mondo politico in questo caso è stata violentissima, ci ricorda Davigo, il processo di Palermo con Andreotti imputato, (assolto in primo grado e poi in appello l’assoluzione viene trasformata in prescrizione, il che equivale ad una condanna) ha generato un “attacco durissimo” da parte del mondo politico alla magistratura.

In ultimo, la devianza della classe dirigente. Un caso emblematico ci fa capire la pericolosità e il danno della criminalità dei “colletti bianchi”, il caso Parmalat.

Davigo ci fa notare i numeri, cioè le persone coinvolte nel caso Parmalat, al processo sono presenti 45000 parti civili, cioè risparmiatori che hanno deciso di richiedere un risarcimento danni.

Uno scippatore quanto impiega a fare 45000 scippi? Anni!

Quanto denaro può scippare? Probabilmente una persona non tiene nella borsa più di una mensilità, i cittadini che avevano investito in Parmalat i risparmi di una vita!

«Dunque un colletto bianco che delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più alto di quanto fa un delinquente normale di strada e a ciascuno di queste vittime fa danni molto più gravi».

La politica inoltre non riesce o non vuole capire che non ha senso attendere le sentenze per agire, per fare le sue valutazioni. Significa non capire che un comportamento è riprovevole anche se non è un reato, attendere le sentenze, significa rimettere ai magistrati la selezione della classe politica.

In questo contesto si può capire perché ci sono continue tensioni tra il mondo politico, classe dirigente e la magistratura

Saverio Lodato, autore con Nino Di Matteo del libro “il patto sporco”, ripercorre il rapporto tra Stato e Mafia. Del fenomeno mafioso sono due secoli che si conosce l’esistenza, eppure solo nel ’62 viene istituita la prima Commissione Parlamentare di inchiesta. Già in epoca regia era stato fatto un eccellente studio sulla mafia, basterebbe sostituire i nomi e i cognomi, dice Lodato, e il quadro mafioso non muterebbe di molto.

Dunque la domanda viene spontanea: lo Stato ha voluto realmente combattere la Mafia?

I processi dei primi anni ’60 agli esponenti mafiosi si concludevano con delle assoluzioni.

Il merito dei giudici Falcone e Borsellino è stato quello di capire il quadro di insieme, il livello sistemico dell’agire mafioso e questo ha permesso loro di trovare delle prove di colpevolezza che hanno retto nei tre gradi di giudizio.

Uomini, donne delle istituzioni hanno pagato con la vita il loro impegno contro la mafia, nel ’92 Falcone e Borsellino furono uccisi e insieme a loro molti altri.

Il processo Andreotti, segnò un arretramento della politica alla lotta alla mafia, gli attacchi ai magistrati che indagavano sul rapporto “Stato-Politica” furono violentissimi, la sentenza del processo dimostra che nella realtà, una parte dello Stato non fu contrapposto ma complice del fenomeno mafioso.

Il processo sulla trattativa Stato Mafia è arrivato a sentenza, primo grado di giudizio, l’anno passato. Anche in questo caso il lavoro dei magistrati ha retto al processo. Cinque anni di dibattimento nei quali i magistrati sono stati attaccati dal mondo politico e non solo. La sentenza di condanna dimostra che la trattativa fu realtà. Eppure davanti ad una sentenza così clamorosa e forte, la risonanza mediatica è stata scarsa, quasi non si volesse far conoscere questa verità.

Portare alla luce, far conoscere queste verità giudiziarie, questi fatti storici è un modo per combattere la mafia e sostenere quegli uomini e quelle donne che in prima linea la combattono.

Questo convegno, dice Avernino Di Croce, vuole certamente informare i cittadini, ma anche far sentire la nostra vicinanza «a chi è dalla parte giusta e a chi è dalla parte difficile».

Al seguente link si può rivedere l’intera conferenza.

Foto di: Franco Borrelli