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Cercare il bene della città

Iniziative autoconvocate riunite sotto il motto «L’Italia che resiste» hanno coinvolto sabato 2 febbraio, nelle città più grandi ma anche nei Comuni medi e piccoli, associazioni culturali e di volontariato, gruppi spontanei, credenti e non credenti, rappresentanti di chiese, a livello personale o più ufficiale. Li univa una voglia di reazione morale, animata per molti e molte proprio dalla fede cristiana, per dire che non vanno bene le politiche basate esclusivamente sul concetto della «sicurezza» e dell’esclusione dei profughi della terra. In sede politica si faranno analisi politiche. Qui preme sottolineare che questa mobilitazione è stata vissuta in maniera molto spontanea: e tuttavia chi, credente, si è fatto coinvolgere e ha risposto in prima persona, ha scoperto di andare nella stessa direzione di un documento come l’appello Restiamo umani (sottoscritto da Tavola valdese, Comunità di S. Egidio, Fcei, segreteria della Conferenza episcopale – Riforma n. 5, p. 16), che una sua rilevanza ha avuto anche sulla stampa nazionale.

A Firenze poi, come si desumeva da una foto su un quotidiano di domenica 3, colte fra i manifestanti in piazza S.ta Croce, due donne indicavano all’obiettivo dei libri e, fra questi, uno celebre di Martin L. King. E questo è un dato bello e impegnativo: la presenza dei cristiani nei movimenti civili, in momenti particolarmente delicati della nostra vita civile, non è nuova, basti pensare alla stagione del pacifismo degli anni ‘80 e inizio anni ‘90. Con una differenza non da poco: a quell’epoca esisteva nel nostro paese un contraltare politico rilevante, fatto di governi contro cui protestare, con una dialettica anche fra partiti, che era e dovrebbe essere tipica della democrazia parlamentare. Oggi questo «sfondo» politico è quasi scomparso, sostituito da quasi niente. Si è persa o è ridotta all’osso la capacità di «rappresentare» gli altri (non per caso le «catene umane» di sabato 2 febbraio hanno inteso abbracciare i municipi che sono l’istituzione più vicina alla cittadinanza), mentre della formazione, della «gavetta», della necessità di trovare delle sintesi fra pensieri diversi pochi avvertono l’utilità. Non stupisce che chi vive stretto nelle difficoltà economiche e sociali finisca per credere a chi imputa tali sofferenze alla «pacchia» di cui godrebbero altri; in questo scenario è dunque ben spiegabile che alcune istanze morali urgenti, fatte di sguardi di umanità nascano anche con la militanza dei credenti, e che le chiese siano interlocutori autorevoli.

Ma proprio perché la politica oggi appare come un grande inquietante vuoto, generatore di reazioni e impulsi più che di consapevolezze, la responsabilità diventa sempre più impegnativa: l’accoglienza si sta facendo con risultati importanti, anche a livello ecumenico, e la si fa perché drammi umani sconvolgenti lo impongono. L’impegno a fianco degli altri cittadini è bello, ed è stato anche gioioso. È bello che le copertine con M. L. King si affianchino (o magari rimpiazzino) alle icone di altri personaggi. Ma lo sguardo degli evangelici e delle evangeliche rispetto alla politica e alle istituzioni, al tempo stesso, deve essere sostenuto anche dalla consapevolezza di essere uno sguardo laico: chiamati a essere responsabili nella società, a «cercare il bene della città» – perché ciò fa parte della nostra vocazione – dobbiamo evitare di connotare confessionalmente il giusto impegno. Perché chiunque, di altra o di nessuna fede, riconosca che partecipiamo (e lo stiamo facendo, e bene) alle battaglie contro l’esclusione e la mancanza di diritti, lavorando in primo luogo per salvare delle vite, consapevoli di lavorare, come ogni giorno, per la libertà di tutti e tutte, per quei diritti civili che furono riconosciuti nel 1848 e che ricorderemo intorno al 17 febbraio.