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L’informazione rifiutata

«Le notizie sulla reale situazione della popolazione ebraica nell’Europa tra il 1933 e il 1945 erano note in Svizzera: le deportazioni naziste e fasciste, le vessazioni, le leggi anti-ebraiche e i sentimenti antisemiti. Queste notizie arrivavano grazie alle agenzie di stampa estere, alleate, dai paesi dell’Asse, e soprattutto dalle agenzie tedesche. L’ antisemitismo, allora, non era “un fatto” da tenere nascosto come potremmo immaginare oggi, tutt’altro, era “sbandierato” con enfasi per fare propaganda e ottenere consensi», afferma la professoressa Silvana Calvo che, introdotta da Maria Ludovica Chiambretto dell’associazione Aec (Amicizia ebraico cristiana di Torino), ha raccontato le sue ricerche (sfociate in diversi libri, l’ultimo è proprio L’informazione rifiutata – la Svizzera dal 1938 al 1945 di fronte al nazismo  e alle notizie del genocidio degli ebrei, Silvio Zamorani Editore) a Torino, partecipando a due appuntamenti: uno presso la Comunità ebraica e l’altro all’Università della terza età. Incontri importanti perché avvenuti alla viglia del 27 gennaio: il Giorno della memoria e del ricordo della Shoah.

Riforma.it ha colto l’occasione per incontrarla e farle alcune domande.

Da lungo tempo lei si occupa di razzismo e di antisemitismo nel Novecento, in particolare di Shoah e della situazione degli ebrei in Svizzera. Perché ha deciso di dedicare un focus particolare alla stampa con l’ultimo suo libro?

«Proprio per indagare in profondità la relazione tra il mondo dell’informazione e i comportamenti della politica e della società. Un’indagine che si potrebbe proporre anche nell’Europa di oggi, per fotografarne l’attualità. Il mio libro, invece, si concentra sul ruolo della comunicazione nella Svizzera degli anni che vanno tra il 1938 e il 1945. Seppur mai censurata completamente, l’informazione visse, come nel resto d’Europa, momenti bui. Già nell’estate del 1942 molti giornali riportavano notizie sul reale numero di ebrei uccisi dai nazisti, che sino a quel momento raggiungeva un milione di vittime. Poi, con la Dichiarazione congiunta anglo-russo-americana, apparsa nel mese di dicembre, fu citato esplicitamente lo sterminio della popolazione ebraica, non solo di quella ebraica, e si accusava la Germania di aver trasformato la Polonia in un “mattatoio”. A partire dal 1943 i dispacci d’agenzia inziarono a riportare i numeri di tale tragedia, 2 milioni, 3 milioni, 4 milioni, fino a 5 milioni di ebrei uccisi. Non si parlava solo dello sterminio, le notizie svelavano anche le deportazioni, la vita nei ghetti, le esecuzioni; insomma, ogni aspetto del dramma che si stava consumando in Europa, e dunque nei vicini confini svizzeri. L’eco mediatica della tragedia raggiunse immediatamente la neutrale Svizzera».

Tutto, dunque, era chiaro e risaputo sin dall’inizio?

«Certamente. L’antisemitismo venne immediatamente usato anche come mezzo di propaganda, per ottenere il potere e “insinuarsi” nelle terre conquistate e da conquistare. In Svizzera, il Governo aveva deciso di non abolire del tutto la libertà di stampa, ma il Consiglio Federale il 26 marzo del 1934 decise di emettere il suo primo decreto che, di fatto, riduceva la libertà di stampa e di opinione ribadendo che gli organi di stampa che “per gravi infrazioni avessero messo in pericolo le relazioni della Svizzera con altri Paesi avrebbero subito un richiamo, e nel caso di mancato adeguamento, sarebbe sopraggiunta la sospensione, dapprima temporanea”. Fu certamente una risposta utile per porre fine alle continue recriminazioni che giungevano da Berlino che riteneva vi fossero ostilità nei confronti di Hitler e del nazismo. Il Governo Federale decise di imporre dunque una sorta di “autocensura preventiva”, per evitare che qualsiasi commento o giudizio morale potesse essere espresso da giornalisti, e eventuali problemi diplomatici».

Sino al quel momento la stampa svizzera criticava il regime nazista dunque?

«Molti giornali di allora non risparmiarono critiche al “vicino arrogante” – così veniva definita talvolta la Germania nazista- e all’ideologia che ne aveva permesso l’espansione. Anche i metodi intimidatori messi in atto dalla Wehrmacht non erano affatto tollerati, tantopiù dalla stampa. La Svizzera, seppur non temesse che la Germania potesse invaderla, ne temeva fortemente la propaganda che stava penetrando nel Paese con estrema facilità e che stava ottenendo consensi».

La popolazione ebraica residente in Svizzera come visse quella situazione?

«Nel settembre del 1939 in Svizzera c’erano circa diecimila ebrei in possesso del passaporto rossocrociato, e novemila ebrei stranieri con il permesso di domicilio: in tutto poco meno dello 0,5% della popolazione. Otre a questi, cinquemila persone erano emigranti con un permesso provvisorio “di tolleranza”, si trattava di nuovi arrivati fuggiti dal nazismo prima dello scoppio della guerra. Nel corso del tempo altri se ne sarebbero aggiunti, varcando la frontiera. Tutti, ovviamente, erano spaventati perché ben consapevoli di cosa stesse accadendo ai loro parenti e agli amici sparsi in Germania, in Francia, in Austria; temevano per le vite dei loro cari. L’Organo rappresentativo di tutto l’ebraismo all’epoca era la Federazione svizzera delle comunità israelitiche guidata da Saly Mayer, il quale sosteneva che gli interessi degli ebrei dovessero essere negoziati al vertice, e dunque proprio con i rappresentanti delle Istituzioni. Le élite ebraiche erano consapevoli della diffidenza riservata loro anche nella Svizzera “neutrale” e furono costretti a giustificare molte decisioni governative, anche se queste spesso erano svantaggiose, proprio per non dover sopportare ulteriori ripercussioni; fu per questo motivo che decisero di non mettere mai in discussione o criticare i “valori svizzeri” di allora: la neutralità e la lotta contro l’inforestierimento (termine utilizzato prevalentemente in Svizzera per indicare un aumento giudicato eccessivo della percentuale di stranieri rispetto alla popolazione indigena, ndr)».

Quanti ebrei in fuga riuscì ad accogliere la Svizzera in quegli anni?

«Gli ebrei profughi entrati in Svizzera nel corso della guerra furono 21.300; più di seimila gli emigranti (sempre ebrei). Solo poche decine di persone poterono entrare prima dell’estate del 1942, la quasi totalità vi riuscì nella seconda metà del periodo bellico. La Svizzera non fu sempre accogliente, infatti decise di bloccare gli ingressi nel paese dapprima chiuedendo il transito alla frontiera con L’Austria, poi edificando nel territorio campi di lavoro per profughi».

Furono scelte governative… la popolazione svizzera come reagì?

«Era necessario contrastare la propaganda mediatica in aumento, e alcune mosse furono necessarie per far passare un’informazione che fosse scevra da condizionamenti politici e bellici. Oltre alla radio, al cinema, ai giornali, alle conferenze promosse da Esercito e Focolare, la sezione dell’esercito della Pro Helvetia  – riorganizzata nel 1941 con lo scopo di informare la società svizzera -, la popolazione potè ricevere un’informazione più veritiera e diversa da quella propagandistica. Inoltre, l’informazione filtrava anche attraverso altri canali, indiretti, ad esempio attraverso le chiese e i luoghi di culto protestanti. Una figura di spicco in tempo di guerra fu quella del pastore protestante evangelico Paul Vogt, un religioso combattivo, che decise di contrastare l’antisemitismo e di spendersi in prima persona per favorire l’accoglienza dei profughi ebrei. Il 24 agosto del 1942 dopo il blocco delle fontiere ai profughi, Vogt seppe conquistare una “mezza vittoria”: quella di far riununciare le autorità dall’ espellere i profughi già presenti nel Paese. Nelle settimane successive, ebbe un grande impatto L’Azione dei posti liberi messa in atto dal pastore per convincere 732 famiglie svizzere ad offrire ospitalità e cure a 1.320 profughi. Attraverso i suoi sermoni, il pastore Vogt denunciò apertamente lo sterminio degli ebrei, difese i profughi, smosse le coscienze e pubblicò testi e rapporti, sia sulla condizione ebraica, sia su quella dei profughi ungheresi. Testi che decise di inviare anche a Benjamin Sagalowitz, allora animatore di un’attivissima agenzia d’informazione».

Mentre da una parte pastori e preti e società civile si muovevano per contrastare le violenze, la Croce rossa – fondata da Jean Henri Dunant nel 1863 -,  la cui fama di organizzazione indipendente e sopra le parti fu smentita dai fatti. Come mai?

«Ho dedicato quasi trenta pagine del libro al ruolo della Croce Rossa, che fu davvero discutibile in tempo di guerra. Quanto agli ebrei, l’esclusione della loro tutela da parte della Croce Rossa fu decisa dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr). Gli ebrei erano allora considerati “soggetti tabù per i tedeschi e soggetto difficile per la dottrina della Croce Rossa. Gli israeliti non costituivano una nazione né nel diritto internazionale, né agli occhi del diritto umanitario e del Cicr”, quest’ultimo non avrebbe dunque potuto, così si sosteneva allora, “prendere in considerazione il criterio razziale, in quanto principio d’azione, senza entrare in contradizione con la sua dottrina”. Tuttavia la Croce Rossa ebbe un ruolo importante in altre Nazioni, non quella tedesca completamente assoggettata a Hitler, nel divulgare notizie sul dramma che si stava consumando sotto la piaga nazista. Ci fu una cosa per la quale in Svizzera fu fiera della Croce Rossa, seppur parzialmente, l’azione a favore dei bambini vittime della guerra, oltre 60.000, ma anche in questo caso, però, non furono soccorsi i bambini ebrei».

Gran parte della società civile svizzera non restò a guardare.

«Furono tanti gli episodi di solidarietà e di accoglienza messi in atto. Ne ricordo sempre uno in particolare: ventidue ragazze di una scuola media di Rorshach in Svizzera ai confini con l’Austria e la Germania, nel settembre del 1942, scrissero una lettera al Consiglio Federale di Berna nella quale condannavano il respingimento degli ebrei che, fuggiti dale persecuzioni razziali, venivano rispediti nella Germania dalla quale erano scappati. La giovane Heidi Weber a nome di tutte scrisse: “…Non ci saremmo mai immaginate che la Svizzera, l’Isola di pace che pretende di essere misericordiosa, avrebbe ributtato, come bestie, oltre la frontiera, questi miseri esseri infreddoliti e tremanti”. A questa lettera che poteva rimanere “una lettera morta” rispose invece il Consigliere Federale svizzero Von Steiger, reagendo malamente e dimostrando tutte le responsabilità. Proprio come accade oggi in materia di accoglienza a rifugiati e richiedenti asilo, Steiger scrisse alla piccola Heidi: “Sai che finora sono stati spesi per i profughi più di 17 milioni di franchi?….Sai che prevediamo una futura disoccupazione? Sai che se accogliamo altre migliaia di profughi ognuno di essi vorrà e avrà bisogno di lavorare…. Sai che da noi s’infiltreranno elementi ambigui? Che tra questi profughi abbiamo trovato spie e agenti stranieri….”».

Dunque, cosa ci insegna la storia?

«La storia può insegnare, ma è bene conoscerla veramente. La storia è utile per riflettere e per ragionare su ciò che è stato, per comprendere le azioni e le cause che determinarono percorsi ed eventi. Rileggendo la storia è possibile trarre un prezioso insegnamento, quello di non ripetere gli errori del passato».

E ai giovani di oggi, quale consiglio darebbe?

«Di non accontentarsi, di non intraprendere solo percorsi semplici, veloci; di non accettare le soluzioni più facili; di soffermarsi a riflettere sulla complesità delle cose che li circondano. Di non agire come tifoserie, seguendo solo i facili slogan. Di studiare, sempre, anche la storia. Di essere curiosi e di leggere i segni dei tempi. Di cercare il senso nelle cose, di custodire la propria e l’altrui memoria. Di ricevere le informazioni con capacità critica, di andare a scavare oltre la notizia. Di rifiutare l’assuefazione all’indifferenza. Di non essere egoisti. Di mettersi sempre in gioco».