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La vita delle parole – Maschera

La maschera deriva dal latino medievale màsca, ancora oggi detta nella lingua piemontese strega. Màsca diventa prima mascra poi mascàra, il trucco per gli occhi. Si tratta sempre di una finzione, un mascheramento di ciò che appare naturale. Altre ipotesi derivano l’etimo dall’arabo mascharat, burla, parola importata dalle Crociate in Terra Santa. Infine, alcuni vedono somiglianze con il pregallico baska da cui il francese rabacher, far fracasso. Le maschere, oggetti-ponte per contattare esseri superiori – divinità e forze cosmiche – hanno due significati, uno positivo, di goliardia e festa, e uno negativo, di minacciosa «ombra dei morti», tanto che la parola striga designa anche la rete per i defunti, affinché non si muovessero di nuovo.

Troviamo maschere nei cinque continenti: in Africa decorano danze e arti; nelle Americhe esagerano nasi, occhi, denti e orecchie; in Asia si smaltano dal nero (Giappone) al roseo (Giava); in Oceania sono pesci volanti e in Europa si umanizzano con personaggi «tipici», come Arlecchino. Fra i significati della maschera ricordiamo quello spirituale dell’antico Egitto, dove si pone sul viso dei defunti, e quello teatrale del V secolo greco dove, comica e tragica, aiuta l’attore a interpretare ruoli umani bisognosi di catarsi collettiva per placare i drammi della vita.

Non si parla di maschere nella Bibbia, dove prevale l’invito a «non attestare il falso contro il tuo prossimo» (Esodo 20, 16). L’impegno per il credente è rimanere sulla strada della verità, non quello del nascondersi. Questo lo può fare solo Dio, luce accecante che spazza i veli. La tradizione protestante mal si accorda, dunque, con il Carnevale, mondo alla rovescia per qualche settimana. Il cambiamento ispirato dalla Riforma è meno eclatante, più radicato nel quotidiano e costante… a piccoli passi… come per la ricerca della verità.