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Un porto per riprendersi la vita

Diciamo che questa volta il bicchiere è mezzo pieno e abbiamo qualche ragione per apprezzare l’esito del «caso» dei 49 naufraghi in fuga dalla Libia soccorsi dalle navi Ong Sea-Watch e Sea Eye, rispettivamente il 22 e il 29 dicembre, e finalmente fatti sbarcare a Malta il 9 gennaio. Per 49 persone, provate dalla permanenza in Libia, dalle angherie degli scafisti e poi dalle cattive condizioni del mare, è stata – letteralmente – un’odissea collettiva che si è conclusa bene, ma troppo tardi e con troppe esitazioni da parte di chi aveva il dovere di garantire in tempi rapidi accoglienza e protezione umanitaria.

Per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei governi su questa gravissima «omissione di soccorso», il 4 gennaio una delegazione di esponenti della società civile e di politici, in maggioranza tedeschi, erano saliti a bordo della Sea Watch: tra loro Christiane Groeben, vicepresidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). Una presenza del tutto coerente con il fatto che da giorni le chiese evangeliche intervenivano per chiedere misure europee utili a tutelare il soccorso in mare e l’azione delle Ong. Lo avevano fatto in una Conferenza stampa il 20 dicembre e ribadito il giorno dopo, sempre a Roma, nel corso di un’assemblea pubblica. Soprattutto lo avevano dimostrato «imbarcando» propri volontari e operatori sulle navi di soccorso, prima tra tutte la Open Arms che – grazie all’apertura della Spagna – il 28 dicembre era riuscita a chiudere felicemente il salvataggio di oltre 300 profughi.

Ma nel caso della Sea-Watch e della Sea Eye, tutte e due di proprietà di Ong tedesche, la strada di un porto spagnolo non risultava praticabile. Da qui un rimpallo tra Malta e Roma, Roma e Bruxelles, Bruxelles e Berlino… Un gioco del cerino, passato di cancelleria in cancelleria in attesa che qualcosa accadesse o che qualcuno si bruciasse le dita. Di fronte a questa impasse in molti, anche all’interno delle chiese evangeliche, si chiedevano quale fosse l’azione più efficace da intraprendere. E così, dopo un rapido confronto e una piena intesa sul da farsi, il presidente della Federazione delle chiese evangeliche, past. Luca M. Negro, e quello della Diaconia valdese, Giovanni Comba, nella mattinata del 4 gennaio hanno lanciato un comunicato congiunto chiedendo una soluzione «europea», proponendo le proprie strutture come luoghi di accoglienza dei migranti e mettendosi a disposizione per una mediazione nei confronti delle chiese sorelle all’estero, soprattutto in Germania. Ore concitate di contatti, telefonate, verifiche sino a quando dalla viceministra agli Affari Esteri Emanuela Del Re è arrivato un messaggio di interesse alla proposta, immediatamente confermata da una dichiarazione d’apertura del vicepremier Di Maio. Da qui un «rilancio» del presidente della Fcei e della Diaconia valdese che in un secondo comunicato diramato nella serata del 4 gennaio prendevano atto dell’apertura del vicepremier e confermavano la loro disponibilità ad accogliere una quota dei migranti presso strutture evangeliche e «senza oneri per lo Stato».

Facile immaginare che questa soluzione pragmatica, umanitaria e carica di buon senso non incontrasse il parere unanime del Governo e infatti per alcuni giorni, almeno in apparenza, non si sono registrati progressi. Mediterranean Hope – il programma Rifugiati e Migranti della Fcei – e la Diaconia valdese restavano tuttavia pronti e mantenevano un canale di comunicazione con il Governo. Sino alla svolta del 10 gennaio quando, dopo un Consiglio dei ministri, il premier Conte ha annunciato la soluzione «valdese»: espressione evidentemente semplificata per indicare e raccogliere la disponibilità espressa dalle chiese evangeliche. Notevole ed eccezionale l’attenzione dei media che, sopresi da questa svolta, dimenticavano l’esperienza lungamente accumulata da Mediterranean Hope e dalla Diaconia valdese nella gestione dell’accoglienza dei beneficiari dei corridoi umanitari.

Oggi le strutture di accoglienza sono pronte e tutti attendiamo la conclusione delle procedure di identificazione preliminari alla ricollocazione dei migranti nei vari paesi che hanno aderito a questa soluzione. Soddisfazione? Certo, ma nei limiti di una vicenda che conferma la debolezza della governance europea su un tema che invece – e molto presto – deciderà della credibilità delle istituzioni comunitarie.