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«Per non rischiare, preferirei chiamarmi cantautore»

Parlare di Fabrizio De Andrè, è raccontare di un compagno di strada, di una voce inconfondibile incontrata nei modi più impensati. Chi ne ha incontrato le canzoni grazie ai dischi di un amico, di una vicina di casa, grazie al passaparola di una classe di liceo, e pure nelle parole appassionate di una professoressa di italiano dalla mente decisamente più aperta dei colleghi.

Tutti ci siamo ritrovati prima o poi a fare i conti con la sua arte. Era un poeta? Probabilmente sì, per chi arrivava da una scuola che con molto impegno e tanta retorica riusciva a fartela odiare sotto ogni forma, quel suo raccontare il mondo senza nasconderne nulla, le sue canzoni erano pura poesia. A dispetto di quel suo realistico umorismo che lo portava a riufiutare l’etichetta e definirsi altrimenti: «Benedetto Croce sosteneva che fino a 18 anni tutti scrivono poesie, poi quelli che continuano a farlo o sono poeti o sono cretini. Per non rischiare, preferirei chiamarmi cantautore».

Schivo per carattere, si diceva allora, abbiamo atteso anni prima di poterlo ascoltare dal vivo, in concerto. Ogni nuovo LP era nuova avventura, e scoprire che in due facciate si poteva raccontare un storia intera, stavano nascendo i “concept album”. “Tutti morimmo a stento”, “La buona novella”, “Storia di un impiegato”. Quel suo modo di prendere parte, di schierarsi apertamente mantendo però vivo il gusto del dubbio, era anche il nostro. Lo pensavamo anche noi ma lui riusciva a dirlo meglio, in modo tagliente e chiaro, senza mai concedere ambiguità al significato di una frase, di una singola parola. Con queste ci sapeva fare, da poeta “sui generis” come quelli cui si è ispirato da Cecco Angiolieri a François Villon, Lee Masters, Alvàro Mutis. La stretta collaborazione con Riccado Mannerini e la nascita di “Tutti morimmo a stento” e “Senza orario, senza bandiera” prodotto con Gianpiero Reverberi per dei giovanissimi New Trolls. Affinando il gusto dello sberleffo alla scuola di Brassens arriva la traduzione de “Il gorilla”, “Delitto di paese”, “La città vecchia”, “Il testamento”. Poi “Creuza de mä” e si rispolvera il dialetto, e così strumenti dimenticati o relegati in un cassetto, da leggi di mercato tanto miopi quanto insindacabili.

Dialetto vissuto senza le velleità campanilistiche dei governanti odierni, ma al contrario come lingua necessaria per dare corpo a una musicalità capace di unire nuovamente le due rive di quel Mediterraneo fino a ieri centro di scambi e confronti e oggi invece declassato a ruolo di frontiera inespugnabile.

Senza contare che grazie alle sue tante collaborazioni scoprimmo altri nomi, e altra poesia, altra musica. Il tour con la Pfm, spalla un misconosciuto David Riondino che cantava nienteche meno il Leopardi, e poi l’indimenticabile “Rimini” con Massimo Bubola. Prima la collaborazione con De Gregori e la nascita dell’inarrivabile “Le storie di ieri”. Grazie a De Andrè scoprimmo anche una Sardegna ricca di storia, isola non solo turistica ma terra viva, che pur essendo ancora terra di conquista per multinazionali di ogni tipo e terreno pe esercitazioni Nato, non aveva mai abbassato la testa, anzi perfino un ex sequestrato arrivava a chiedersi e a darsi risposte in merito alla rincorsa di guadagni facili e falsi miti.

Il quadro di Remington con il nativo americano in copertina non era stato scelto a caso. E poi di album in album, “Nuvole” e “Anime salve”, di tour in tour con i figli e l’immancabile Mauro Pagani. A vent’anni dalla morte la sua presenza è più viva che mai.

Se è vero ciò che scriveva il Foscolo che chi non lascia nulla in eredità non trova pace nell’urna, Fabrizio De Andrè non ha nulla da temere.