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Il racconto della giornalista fermata in Sudan

Per gentile concessione di www.articolo21.org

Per una volta invece di raccontare “la notizia”, la sottoscritta lo è stato suo malgrado.
Ero in Sudan per raccontare “fatti”. Per illuminare una rivolta di cui sembrava non importare a nessuno, violazioni di diritti, uccisione di civili inermi colpevoli di manifestare pacificamente.
Crimini che il mondo si ostina a ignorare.
Vergognosamente.
Tutto è iniziato con delle semplici riprese. Non ero ancora arrivata a Omdurman, città gemella di Khartoum, la capitale del Sudan dove era prevista una manifestazione che volevo seguire.
Ho chiesto all’autista del tuk tuk che avevo preso dal mio albergo di fermarsi subito dopo il ponte che attraversa il Nilo per fare delle immagini.
Una ripresa del paesaggio, del fiume, della gente assembrata davanti a un edificio governativo, brevi frame da utilizzare come possibili “tagli” per il reportage che avrei realizzato appena tornata in Italia.
Forse ho ripreso il posto e le persone sbagliate. Di certo c’è che un paio di individui non identificabili, con abiti civili, si sono avvicinati e mi hanno chiesto perché ero lì e scattavo foto.
Poi mi hanno obbligata a seguirli per motivi di sicurezza. Nonostante avessi chiesto di mostrarmi un documento che attestasse fossero della polizia o dei servizi di sicurezza hanno ignorato la mia richiesta. Hanno voluto il mio telefono e la telecamera. Hanno setacciato foto, immagini, file. E hanno cancellato tutto.
Nonostante fossi arrabbiata ho cercato di rimanere calma. Fino a quel momento sembrava fosse un semplice controllo.
Certo, temevo potessero arrestarmi. Per questo non ho protestato quando mi hanno chiesto di consegnargli cellulare e telecamera.
Volevo uscire da quella situazione il prima possibile.
Mi hanno fatto tante domande, mi hanno intimato di non scattare altre foto. Ma mi hanno lasciata andare.
Nel frattempo avevo mandato un messaggio a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, per dirgli che mi avevano fermata e per chiedergli di avvisare, qualora non avesse avuto mie notizie, l’Ambasciata italiana in Sudan.
Se tutto si è risolto in poche ore è proprio grazie alla nostra diplomazia.
Non ho mai perso la testa. Ma ammetto di essermi sentita al sicuro solo quando ho visto l’ambasciatore, al quale mi lega una profonda amicizia.
Cosa fare ora?
Nonostante questa brutta avventura sento il dovere di raccontare ciò che ho visto.
Delle centinaia di persone in strada per manifestare la propria disperazione. Dell’uso indiscriminato contro uomini, donne e bambini di gas lacrimogeni che anch’io ho respirato.
Proprio mentre rientravo a Khartoum ho potuto documentare la manifestazione, dispersa con la forza e delle centinaia di persone arrestate.
Fino a ieri avrei potuto scrivere solo di edifici anneriti dalle fiamme, copertoni di gomme usati come barriere lasciati ai margini delle strade, fori di proiettili nei muri ad altezza d’uomo, testimonianza dei disordini e delle cariche della polizia che non ha esitato a reprimere sparando sulla gente che voleva solo manifestare pacificamente.
Almeno 40 le vittime dal 19 novembre, anche se le autorità sudanesi ne ammettono “solo” 19.
A smentire questo dato il leader dell’opposizione Sadiq Al Mhadi, rientrato a metà dicembre nel Paese dopo un lungo periodo di autoesilio, e diverse organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International che ha raccolto testimonianze dirette di ciò che sta accadendo in tante città sudanesi.
Il Paese è alle prese da anni con una forte crisi economica dovuta a un’inflazione record, alla carenza di valuta forte e ai bassi livelli di liquidità delle banche commerciali. Il governo ha per questo deciso di adottare misure di austerity.
La vita è diventata sempre più difficile per la classe media e quella più povera, scarseggiano i beni di prima necessità e i prezzi sono saliti vertiginosamente limitando la possibilità di usufruire ai servizi educativi e sanitari ai soli ricchi.
L’aggravarsi della situazione ha spinto esponenti dell’opposizione e attivisti ma anche migliaia di semplici cittadini a organizzare dimostrazioni pacifiche in molte città del Paese per esprimere il proprio disagio verso un regime dittatoriale che porta avanti politiche repressive da oltre 30 anni.
Terra di repressione e radicalismo, di violenza e traffici, di morte e impunità.
Ecco il Sudan, il Paese del conflitto in Darfur che ha causato almeno 400 mila vittime e 2 milioni e mezzo di profughi e dei bombardamenti a tappeto sui Monti Nuba.
Nel cuore dell’Africa, là dove la guerra è un imperativo di condotta e il presidente Bashir, al potere dal 1989, governa a dispetto del mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio.
Nonostante la gravità di quanto stia avvenendo l’attenzione dei media, a causa della scarsità di notizie che fluiscono dal Sudan dove gli organi di informazione sono nella quasi totalità filo governativi, è pressoché limitata ovunque.
Il governo ha bloccato la comunicazione su Internet e i media nazionali censurano le notizie. Niente social, niente Whatsapp.
Se la mia vicenda è riuscita a rompere questo assordante silenzio non posso che esserne felice.
Se si continuasse a tacere le manifestazioni, gli eccidi, le continue ingiustizie e violazioni dei diritti umani nel Paese, saremo tutti complici.