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Per la pace in Yemen molto ruota intorno a Hodeidah

Si stanno avvicinando alla chiusura i colloqui che si svolgono in Svezia per trovare una soluzione negoziale alla guerra in Yemen: domani, giovedì 13 dicembre, il segretario generale delle Nazioni Unite, il portoghese Antonio Guterres, si recherà nella città di Rimbo, a nord di Stoccolma, per sostenere gli sforzi del suo inviato nell’ultima giornata di lavoro e per incontrare i delegati del gruppo Houthi, appoggiato dall’Iran, e del governo riconosciuto a livello internazionale e sostenuto dall’Arabia Saudita, guidato da Abd-Rabbih Mansour Hadi. L’obiettivo principale rimane quello di fermare le operazioni militari, che hanno causato la morte di oltre 55.000 persone in meno di quattro anni.

Le trattative si erano aperte la scorsa settimana in un clima di prudente ottimismo. Le ragioni sono principalmente due: da un lato il caso dell’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi ha indebolito la posizione internazionale dell’Arabia Saudita e del principe ereditario Mohamed bin Salman, dall’altro alcuni segni di distensione delle parti in conflitto. In particolare, la scorsa settimana si era aperta con un accordo per lo scambio di prigionieri tra le parti. Martedì 5 dicembre era infatti avvenuta la condivisione di una lista di circa 15.000 prigionieri da rilasciare sotto la supervisione della Croce Rossa Internazionale.

Tuttavia, a distanza di una settimana non si è ancora arrivati a un’intesa sulla questione più urgente e delicata in questa fase di guerra: lo status della città e del porto di Hodeidah, il principale luogo di approdo di merci e aiuti umanitari in un Paese sempre più isolato.

Il momento sembra favorevole per compiere passi avanti: Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che guidano la coalizione in sostegno al presidente Hadi, hanno bisogno di uscire dal conflitto cominciato con l’intervento armato del 26 marzo 2015 e che da allora ha visto oltre 18.000 attacchi aerei senza però ottenere il risultato sperato, ovvero la resa dei ribelli Houthi. Nel frattempo, oltre 20 milioni di yemeniti, pari a oltre i due terzi della popolazione, vivono un’emergenza sanitaria e alimentare e hanno urgente bisogno di accedere a cibo e assistenza.

Per evitare che lo scontro a Hodeidah salga ancora di livello, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Martin Griffiths, ha chiesto nei giorni scorsi che entrambi le parti in guerra si ritirino dalla città, lasciando spazio a una entità provvisoria con il solo scopo di portare avanti le attività nella città e nel porto, con osservatori internazionali sul terreno. Entrambe le parti hanno dichiarato di essere favorevoli a un ruolo delle Nazioni Unite nel porto, ma sono in disaccordo sulla governance della città. Gli Houthi, infatti, vogliono che Hodeidah venga dichiarata zona neutrale, mentre il governo guidato da Hadi ritiene che la città debba ricadere sotto il suo controllo per ragioni di sovranità.

Inoltre, anche le modalità del ritiro non sono definite: i ribelli Houthi hanno affermato di essere pronti a cedere il controllo del porto alle Nazioni Unite, ma solo se in cambio la coalizione a guida saudita sospenderà gli attacchi aerei. Si tratta di un elemento incluso nella proposta di tregua preparata dalle Nazioni Unite e articolata in 16 punti, ma non si è ancora giunti a un accordo su chi debba compiere il primo passo.

Una volta sbloccata la situazione diplomatica, le Nazioni Unite invierebbero nella zona diversi osservatori, demandando però la sicurezza del porto alla Guardia Costiera yemenita e trasferendo tutti gli incassi del porto alla Banca Centrale dello Yemen, oggetto a sua volta di trattative. A catena, questo permetterebbe di pagare gli oltre 1.200.000 dipendenti pubblici, che da oltre due anni non vengono ricevono lo stipendio, in modo da far ripartire sanità, educazione e servizi d’igiene e contenere la crisi umanitaria, ormai fuori controllo. Ma per arrivare a questo punto bisogna prima fermare le operazioni militari.

L’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Martin Griffiths, afferma che i negoziati in corso non hanno l’ambizione di trovare una soluzione politica al conflitto, ma che puntano a introdurre una serie di misure utili a costruire la fiducia reciproca tra le parti, in modo da arrivare a nuovi e più strutturati colloqui di pace nel 2019.