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La nostra speranza che nasce nell’attesa

«Lassù era passata la sua esistenza segregata dal mondo, per aspettare il nemico egli si era tormentato più di trent’anni…». È un passaggio finale del romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari (1945), in cui si narra la vita del tenente Giovanni Drogo, trascorsa in una Fortezza dell’Impero, che maestosa si erge in mezzo al deserto. Ogni giorno dagli spalti Drogo scruta l’orizzonte in attesa dell’arrivo dei Tartari: una presenza minacciosa, ai confini dell’Impero, che andava eliminata; eppure, questo scontro decisivo con il male assoluto non avverrà. Man mano che l’evento fatidico tarda ad arrivare, la disperazione finisce con l’occupare l’intera scena. È venuto meno, per dirla con Kierkegaard, «il bersaglio dell’attesa».

La speranza, logorata dall’attesa, ha finito per sciogliersi come neve al sole. E dopo tanto, troppo tempo Drogo, ormai vecchio e malato, dovrà lasciare la Fortezza e la sua guarnigione. Il compito si è concluso. All’orizzonte rimane solo la morte ad attenderlo: «…e gli venne in mente: se fosse tutto un inganno?». Interrogativo amaro che risuona al termine di una vita incentrata su un’attesa totalmente delusa. Delusione che può sfociare nella disperazione o implodere nel rifiuto di continuare a vivere, attraversando la soglia del non senso dell’esistenza, così lucidamente descritta da Cesare Pavese: «Oh nulla nella vita c’è che valga/ la mia anima gonfia in quest’istante,/ il suo struggimento doloroso/ in cui si fondono tutte le speranze/ tutte le angosce della mia esistenza» (17 dicembre 1925).

Ma non stiamo parlando anche della Bibbia? A ben guardare la Scrittura è una lunga e variopinta galleria di numerose attese. Da quella che si srotola dal deserto verso la Terra promessa sino alle tante attese messianiche variamente descritte. C’è un messia personale, e un altro collettivo. Epoche lontane esprimono messianismi diversi, ma tutti attraversati dal tendere verso l’evento decisivo. Possiamo percorrere una vera e propria narrazione plurale dell’attesa, non di rado poetica, che sgorga, per fare un esempio, dal dramma degli esiliati in Babilonia. Qui torna alla mente l’immagine messianica di Isaia (65, 17-25), in cui Dio dice: «Poiché, ecco, io creo de’ nuovi cieli e una nuova terra; quivi non si udran più voci di pianto né gridi d’angoscia; non vi sarà più, in avvenire, bimbo nato per pochi giorni, né vecchio che non compia il numero de’ suoi anni…».

L’attesa che il progetto di Dio per l’umanità si realizzi è pura utopia? La risposta sarà disperatamente positiva se il progetto viene recepito come un invito a fuggire dalla dura realtà. Se c’è la fuga, l’utopia rimane tale e l’angoscia finirà per nutrire il tempo dell’attesa. Se invece si guarda al futuro nella prospettiva di ciò che Dio ha già fatto per noi, allora l’utopia diventa realtà. Se lo sguardo è rivolto alle trasformazioni che Dio, non solo ieri, ma ogni giorno del presente e del futuro opera nella storia, ecco che il tempo dell’attesa sarà nutrito di speranza; e la speranza darà vigore alla nostra opera di cristiani che lavorano perché un granello della giustizia di Dio si depositi su questa terra. Non si tratta solo di sognare qualcosa al di là del quotidiano, ma di credere possibile che Dio crei un mondo nuovo e lo voglia fare con noi, servendosi di noi, non contro di noi. Agire, insomma, non solo sognare. Oltretutto si tratta di una trasformazione sia dell’umanità sia dell’intero creato. Per dirla con Paolo: «Sappiamo che fino ad ora tutta la creazione geme insieme ed è in travaglio…» (Romani 8, 22).

L’attesa è il terreno spirituale comune tra Antico e Nuovo Testamento. L’attesa del mondo nuovo rimbalza sino all’ultimo libro della Bibbia: «vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non era più» (Apocalisse 21, 1) e nell’ultima parola che chiude tutta la Scrittura: «Vieni Signor Gesù». Ritroviamo quest’attesa anche nella letteratura cristiana del I e II secolo. La Didachè, riassumendo in chiave giudaico-cristiana la vita di fede, esorta i gruppi di credenti a incoraggiarsi reciprocamente nella comune attesa: «riunitevi con frequenza cercando ciò che è conveniente per le vostre anime (…) verrà il Signore e il mondo vedrà il Signore venire sulle nubi del cielo». Le promesse fatte alla casa di Davide rivivono nell’attesa del Regno annunciato dal Cristo.

Noi siamo entrati in queste settimane nel tempo liturgico dell’Avvento. L’attesa della nascita del Signore e l’attesa del suo ritorno. Una tensione riassunta nell’espressione aramaica Maràna Tha! (I Cor. 16, 23): «Signore nostro vieni!». Oppure (spostando le sillabe): Maran atha: «Il Signore nostro è venuto!». Viviamo tra la memoria di ciò che è stato e l’attesa della piena realizzazione delle promesse di Dio. Possiamo tendere con tutto noi stessi verso il progetto di Dio. Camminando verso questa meta, la speranza accompagnerà i nostri passi. Sta a noi percorrere la giusta strada per far crescere il seme di speranza e la volontà di giustizia.