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Yemen, un nuovo tentativo per la pace

Da questa mattina i rappresentanti del governo yemenita guidato dal presidente Hadi e quelli del movimento ribelle Ansar Allah, meglio conosciuto come Houthi, si trovano allo stesso tavolo, in Svezia, per negoziare la fine delle ostilità armate in Yemen. È la prima volta che succede negli ultimi due anni, dopo numerosi tentativi falliti e dopo lunghe fasi di chiusura reciproca, in cui alle parole si sono preferite le bombe e i colpi di mortaio. Martin Griffiths, inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, afferma che «vedere le parti in guerra sedersi insieme e parlare è un inizio importante», perché «una conversazione richiede che entrambe le parti sospendano la loro convinzione di raggiungere una vittoria sul piano militare».

La guerra è cominciata nel marzo del 2015, quando l’Arabia Saudita si è messa a capo di una coalizione militare di Paesi del Golfo per contrastare l’avanzata dei ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran e fino a fine 2017 alleati con Ali Abdallah Saleh, deposto del 2011 e poi ucciso dagli stessi ribelli a fine 2017. L’Arabia Saudita, che supporta invece il presidente riconosciuto dalla comunità internazionale, Abd Rabbih Mansur Hadi, da allora ha bombardato grandi aree del Paese, innescando quella che molti osservatori ritengono la più grave crisi umanitaria in corso a livello globale, una crisi a cui contribuiscono anche i Paesi europei, produttori di armamenti che vengono utilizzati proprio nello scenario yemenita.

Sono stati numerosi i tentativi diplomatici di trovare una soluzione negoziata. L’ultimo fallimento è ancora fresco nella memoria dei negoziatori e risale a settembre, quando i ribelli Houthi non avevano raggiunto Ginevra, sede delle trattative. Allora perché questa volta dovrebbe andare diversamente? Secondo Antonia Calvo Puerta, capo della delegazione dell’Unione europea in Yemen, intervistata da Radio Beckwith, «le varie parti in causa hanno capito che il livello di tolleranza da parte della comunità internazionale nei confronti di questo conflitto si sta esaurendo giorno dopo giorno, a causa certamente della situazione umanitaria, ma anche perché il caso Khashoggi ha modificato la percezione regionale. Inoltre le cose possono essere differenti perché c’è stata un’evoluzione nel pensiero della leadership degli Houthi, che ora ritengono di essere in una buona posizione per negoziare e sono fiduciosi di poter gestire il negoziato. Credo sia una vera opportunità».

Un’opportunità che non può essere mancata, perché questi anni di conflitto hanno ucciso migliaia di persone e costretto oltre 500.000 persone a lasciare le proprie case, un fenomeno di cui in Europa quasi non ci siamo accorti perché dallo Yemen mancano le vie di fuga. Inoltre, nel Paese si è sviluppata la peggior epidemia di colera al mondo e quasi 14 milioni di persone rischiano di morire di fame. Per tutte queste persone la guerra deve finire subito, anche perché il rischio è che si aprano, o si riaprano, nuovi focolai di crisi.

La seconda metà del 2018 è stata caratterizzata dai combattimenti a Hodeida, la città portuale sul Mar Rosso, fondamentale per l’ingresso nel Paese degli aiuti umanitari. Da giugno, la popolazione della città è crollata e la popolazione yemenita ha avuto sempre più difficoltà ad accedere a forme essenziali di aiuto, alimentare e medico. Per Geert Cappelaere, direttore regionale di Unicef per il Medio oriente e il Nord Africa, «le preoccupazioni per Hodeida sono numerose: prima di tutto per i 375.000 bambini che rimangono nella città e che stanno soffrendo l’impatto di una guerra che non dipende da loro. Hodeida è anche grande motivo di preoccupazione perché è il luogo in cui tutti gli indicatori di sviluppo umano sono ai livelli minimi». Nella provincia di Hodeida, infatti, si ritrovano oggi i più alti livelli di malnutrizione e il più significativo calo della copertura vaccinale.

Inoltre, il porto della città non è soltanto il luogo attraverso cui transitano quasi interamente gli aiuti umanitari, ma anche il principale punto d’ingresso per i beni commerciali, come cibo e carburante, beni che molti yemeniti ormai faticano ad acquistare anche quando sono disponibili.

Certo, non bisogna aspettarsi troppo da questi negoziati, perché difficilmente si arriverà a una svolta a tutto tondo. È lo stesso Martin Griffiths a ritenere che si debba procedere per gradi, partendo quindi dall’obiettivo primario di porre fine alla battaglia di Hodeida per arrivare, al termine dell’incontro, che si prevede possa durare una setimana, alla definizione di una cornice all’interno della quale cominciare a discutere di una futura soluzione politica.

Quel che è certo, per contro, è che l’eredità della guerra sarà a lungo termine, perché ha minato non solo l’unità territoriale del Paese, ma soprattutto quella sociale e religiosa, che ha sempre caratterizzato la società yemenita. «Non parlo solo – chiarisce Antonia Calvo Puerta – di quella interna all’Islam, tra sunniti e sciiti, ma anche della presenza di comunità cristiane ed ebraiche. Quando si cammina per le strade di Sana’a è possibile vedere la Stella di David come decorazione di molti edifici, non è mai stata rimossa o danneggiata. Ciò che ha fatto la guerra è stato cercare di ridurre gli yemeniti a una contrapposizione tra sunniti e sciiti», una contrapposizione che non ha mai attecchito in un Paese in cui la corrente maggioritaria è quella dello Zaydismo, un ramo dell’Islam da sempre caratterizzato da tolleranza e convivenza. «In guerra – prosegue Calvo Puerta – tutto si esaspera e si passa a una logica di “me o l’altro”. Se devo scegliere, a quel punto scelgo me stesso e cerco di eliminare l’altro. Questa è probabilmente una delle conseguenze più a lungo termine di questo conflitto».