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La stella e la mezzaluna

I rapporti tra Islam ed Ebraismo sono al centro dell’ultimo libro di Vittorio Robiati Bendaud, studioso, docente, per anni assistente e allievo di Rav Giuseppe Laras. Il titolo è La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islām, un tema che è stato affrontato probabilmente per la prima volta in un testo in lingua italiana e che porta un punto di vista storico critico su quelli che sono stati i momenti di coesistenza, di scontro e di confronto tra le due religioni. Rapporti che si intrecciano nella storia, si evolvono e inevitabilmente si influenzano reciprocamente, in una dinamica che non è a due ma coinvolge tutte e tre le principali religioni monoteiste.

Ne parla l’autore Vittorio Robiati Bendaud.

Come nasce la necessità di approfondire questo tema e realizzare il libro?

«Nasce da varie motivazioni. La prima è personale: parte della mia famiglia è originaria di un paese arabo islamico, la Libia, poi, occupandoci di contemporaneità, si ripropone, non soltanto in Israele ma in Europa e in occidente in generale, la necessità di occuparsi del rapporto tra Ebraismo e Islam. Dalla fine del XIX secolo e l’inizio del XX è avvenuto quello che il grande storico dell’antisemitismo francese George Bensoussan chiama nei paesi arabi le grand déracinement , il grande sradicamento, con conseguente annichilimento di comunità antichissime, spesso precedenti all’avvento dell’islam. Le comunità si sono esaurite o sono state espulse quando gli ebrei non perseguitati e uccisi, in particolare dal ’48, si sono mossi verso un esilio composto da circa un milione di persone, le cui discendenze si sono riversate o in Israele o in alcuni paesi europei. Ma la nascita dello stato di Israele è catalizzatore, non causa, di problemi inveterati. La terza questione è che spesso la ricostruzione dei rapporti tra Islam ed Ebraismo è fatta in maniera ideologica: la ricostruzione storica che vige, per lo più in ambito accademico, è totalmente acritica e se si pensa alla Spagna medievale per come viene presentata, sembra che i rapporti fossero idilliaci, cosa che assolutamente non fu. C’è una versione contemporanea che ha il pregio di correggere questa lettura irenista, falsa anch’essa perché presenta questi rapporti come fiere, orgogliose e durissime contrapposizioni».

E quindi ci sono nella storia degli esempi che possano essere interpretati come convivenza sostenibile tra ebrei e musulmani?

«Di convivenza, come viene utilizzata la parola nel senso quotidiano oggi in occidente, non possiamo parlare. Possono esserci stati esempi, anche molti, di singoli o famiglie che abbiano convissuto bene in amicizia, questo assolutamente si. Ma una convivenza per cui si è uguali, con uguali diritti, uguali doveri, no. Al massimo si può parlare di una coesistenza: gli ebrei potevano vivere, magari pure prosperare, come del resto anche i cristiani di varie confessioni, ma non erano coesistenti: si era in una struttura dispari che prevedeva che la comunità musulmana vivesse al centro, l’ebreo sottomesso e consenziente rispetto questa sottomissione. A patto di questo potevi prosperare. In alcuni casi l’autorità islamica, perché illuminata, poteva prevedere la presenza di qualche altra minoranza come gli armeni, che servivano al regno arabo, o al regno persiano o a quello turco islamico, perché portavano avanti l’economia, la medicina o la rappresentanza diplomatica nel paese».

Quando si tratta di conflitti le cui istanze vengono portate avanti con una dialettica di carattere religioso, si tende a riportare lo scontro a una natura più economica e politica. Nel caso dei rapporti ebraico-islamici, a cosa si deve ricondurre questa difficoltà di coesistenza?

«I caratteri economici e sociali sono assolutamente importanti. Nel rapporto fra i tre monoteismi ci sono questioni diverse, si fa difficoltà a vederlo perché certa critica iper laica che sottovaluta le religioni o ne ha un’opinione molto critica, riduce tutto a conflitti di tipo socioeconomici. Alle religioni questo conviene perché si puliscono la coscienza. All’uditore passa il messaggio che in sé la religione sarebbe adamantina, ma le persone sono corruttibili. Queste tre religioni normano la vita delle persone, affermano grandi principi etici, si presentano asserendo di poter dare un contributo alla vita sociale nonostante sulle questioni socioeconomiche siano molto deboli. Dico, da credente, che bisognerebbe fare un po’ di auto analisi.

Il rabbino Laras scherzando diceva due cose: “Non è un problema se gli ebrei credono o non credono alle loro scritture sacre, il problema è che gli altri ci hanno creduto”. La seconda battuta che lui faceva, parlando etsi deus non daretur, come se dio non esistesse, era che le tre religioni monoteiste sono molto simili a quella ebraica, che è stata la matrice. Se ci ragioniamo bene sono molto inquietanti, ma siccome la natura umana è evidentemente perversa, perché le ha create, se non ci fossero chissà cos’altro si sarebbero inventati; quindi tanto vale tenerci queste che almeno sappiamo con cosa abbiamo a che fare. Fuori dalla battuta, nel Corano, se letto in modo storico critico, tutto l’apparato che accusa i cristiani di essere idolatri, accuse che nel corano sono mosse da Gesù, come di associare a Dio una natura umana finita, sono accuse che vengono dall’ebraismo verso il cristianesimo, e che l’Islam ha recepito. Le accuse violentissime contro gli ebrei sono in larga misura di matrice patristica cristiana. Il dramma è che sono messe in un testo sacro, dettato direttamente da Dio secondo l’autocoscienza islamica, in una struttura sostituzionista. L’idea della sostituzione viene dal cristianesimo perché ha avuto il problema di derivare dall’ebraismo, assumere un prestito, riconoscerlo e al contempo negarlo. Così è stato fino al 1947, quando c’è stata la conferenza di fedi delle chiese protestanti per il riavvicinamento con l’ebraismo a cui si è poi unita la chiesa cattolica. Tutte queste strutture hanno connotato così i rapporti non perché le religioni si riconoscono diverse, ma proprio perché sono simili. È un rapporto in sé conflittuale, dato non dalle differenze ma dalla troppa somiglianza».

L’intervista completa con Vittorio Robiati Bendaud si trova qui.