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Hiv, una guerra non ancora vinta

Sembrano ormai lontani i tempi bui dell’epidemia che ha ucciso in meno di quarant’anni più di 25 milioni di persone, ma a maggior ragione bisogna tenere alta la guardia anche oggi. Questo è il monito di #tiriguarda, campagna lanciata da Anlaids (Associazione nazionale per la lotta contro l’Aids) in occasione della giornata mondiale dedicata alla prevenzione e sensibilizzazione sul contagio da hiv e alla lotta all’Aids (1° dicembre).

Questa (così come analoghe campagne) ricordano che l’infezione non è un’ipotesi irreale e lontana da ognuno di noi, come dimostrano i circa 4000 nuovi casi diagnosticati in Italia ogni anno, e ciò avviene in quasi metà delle situazioni diversi anni dopo il contagio, con tutto ciò che ne consegue.

Particolarmente a rischio sono giovani e giovanissimi, nei quali il livello di consapevolezza e conoscenza è più basso. Secondo l’ultimo rapporto dell’Unicef dedicato a questo tema, nel mondo ogni due minuti avviene un nuovo contagio, che colpisce un adolescente tra i 10 e i 19 anni, e se non si investirà di più in prevenzione e cura, nei prossimi anni una media di 76 giovanissimi morirà ogni giorno per questa malattia. Se sono stati fatti grandi passi avanti nella diagnosi in ambito neonatale-pediatrico, con una decisiva diminuzione delle morti infantili (età 0-9) imputabili all’hiv, infatti, questo non è accaduto nella fascia adolescenziale, emerge dal Rapporto.

Per questo motivo sono particolarmente urgenti le iniziative che coinvolgono adolescenti e giovani, come quella promossa dall’Africa University dello Zimbabwe, struttura della United Methodist Church che raccoglie più di mille studenti provenienti da tutto il paese e da una trentina di altri stati africani. Una ricerca condotta nel Paese nel 2015 rileva che il 74% della popolazione è a conoscenza di essere o meno sieropositivo, ma tra i giovanissimi la percentuale è molto più bassa, circa il 40%.

L’Università promuove un progetto di autodiagnosi rivolto agli studenti: è anche un modo per responsabilizzarli in quanto, una volta fatto l’auto-test nel luogo che preferiscono, dovranno assumersi la responsabilità delle loro scelte e comportamenti futuri. Il progetto è stato finanziato dalla United Methodist Church (Board of Global Ministries) e con la donazione di 750 kit da parte di un’azienda, ed è il primo che la Umc conduce, supportata dal Centro di ricerca clinica dell’Università, in una propria istituzione nel Paese, dove peraltro sono attivi analoghi progetti di prevenzione ad ampio spettro (donne incinte, bambini e adolescenti) da parte dell’Unicef. Obiettivo del progetto metodista, rafforzare la rete di collaborazione tra educatori, tutor, assistenti sanitari e giovani, impegnando questi ultimi nell’attività di sensibilizzazione dei loro coetanei sia all’Università sia nei dintorni, nel distretto di Mutare dove sorge l’Università.