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Conoscere la propria fragilità, avendo Dio accanto

O Signore, fammi conoscere la mia fine e quale sia la misura dei miei giorni
Salmo 39, 4

Non temere, io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero molto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e del soggiorno dell’Ades
Apocalisse 1, 17-18

Non possiamo fare a meno di considerare queste parole del Salmista come qualcosa che non merita risposta. Nella Scrittura non troviamo risposte a simili domande, né siamo incoraggiati a porle. Il Salmista, però, non è così superficiale, come apparirebbe se gli togliessimo di bocca le parole che concludono la sua invocazione. Egli prega non in maniera presuntuosa. Lo fa in maniera umile. La sua richiesta non è titanica né morbosa; non è segnata dal gusto di conoscere ciò che è imperscrutabile agli uomini. Infatti, egli prosegue dicendo: «Fa’ ch’io sappia quanto sono fragile». Ecco il senso della sua domanda: la conferma di ciò che gli è noto. Egli conosce la sua fragilità, e nella risposta che si attende da Dio non cerca un destino che non è il suo. Vuole vivere la sua fragilità avendo Dio come compagno di viaggio. Dio non è il suo jolly, da giocare nel momento di difficoltà. Dio è l’amico che non ci lascia soli, mai.

Apparentemente è un controsenso pregare per conoscere quel che già sappiamo, senza attenderci un intervento straordinario e miracoloso in grado di cambiare il nostro domani. Eppure il modo di pregare del Salmista va preso a modello: prega in modo sincero, disinteressato, senza secondi fini. La sua è la preghiera di chi vuole vivere in comunione con Dio, pronto ad affrontare i travagli della vita senza comode scappatoie, ma col solo aiuto che gli viene dalla vicinanza e dalla comunione con Dio. Più didatticamente, l’apostolo Paolo dirà «se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rom. 8, 31). E altrove dirà: «la mia grazia ti basta» (2 Cor. 12, 9).