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Max Beckmann: l’arte, il tormento

Max Beckmann apparteneva a una delle solide famiglie della buona borghesia protestante tedesca, che gli consentì di coltivare al meglio la sua propensione per l’arte della pittura, studiando in una rinomata scuola d’arte a Weimar, da cui prese le mosse per conoscere gradualmente le massime scuole d’arte in Europa; dopo i soggiorni a Parigi (1903), in Italia (1904) e in Danimarca (1905) per stabilirsi, dopo il matrimonio con Minna Tube e un soggiorno a Firenze, nella zona nord di Berlino (1907), dedicandosi a paesaggi, ritratti e quadri a soggetto storico che ebbero presto gran successo, e gli permisero di conoscere alcuni dei più talentuosi artisti del momento, come Franz Marc. Con quest’ultimo ebbe un dissidio che destò scalpore nel mondo della Secessione berlinese (movimento artistico innovativo di giovani artisti che, dapprima a Monaco, poi a Vienna e in altre città, segnava il distacco, fra fine ‘800 e inizio ‘900, dai canoni tradizionali, ndr), senza intaccare il suo successo, che lo portò imprevedibilmente a una profonda crisi personale e artistica da cui egli partì per un radicale ripensamento del proprio indirizzo artistico.

Il numero di quadri dipinti diminuì e tra questi fecero la loro comparsa opere a soggetto religioso come Deposizione e Cristo e La peccatrice, ma anche nature morte, ritratti e autoritratti, che appaiono come svuotati della forza d’urto primitiva, sbiaditi, quasi pieni di una umiltà prima ignota; si intuisce un mutamento interiore, che si riflette nello stile e, in parte, anche nei temi. I suoi riferimenti ideali sono lontanissimi fra loro: da una parte la pittura medievale tedesca, dall’altra Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel il Vecchio, l’Altare di Issenheim di Grünewald. Quadri in cui la qualità del maestro restava evidente; mancava però il tocco geniale che veniva dall’interiorità più profonda.

Parigi, l’indiscussa capitale europea dell’arte figurativa, cominciò ad avere una concorrente in Monaco e Beckmann vi si recò sempre più spesso, trovando sempre più estimatori delle sue nuove nature morte in cui si andava profilando una svolta stilistica che pur non gli consentiva di raggiungere i livelli di Picasso, Braque ecc. cui l’artista guardava come punti di riferimento. Lo sviluppo della nuova linea di ricerca gli procurò successo ma non abbastanza per competere con gli artisti più affermati.

Il balzo in avanti sul piano artistico si verifica quando Beckmann comincia a rappresentare se stesso, indagatore di sé stesso nella figura di un uomo pensoso, pieno di dubbi, malinconico immerso in pieno nella massima del nosci te ipsum, un uomo che rappresenta con intuito profondo e grandissima capacità espressiva ogni essere umano posto di fronte a un momento storico come quello che egli stava attraversando: dittatura, nazismo vincente, valori umani perdenti con le inevitabili ferite interiori da sopportare in seguito.

«Ma la giustizia brilla/ nei tuguri fumosi/ e onora una vita giusta/ distogliendo lo sguardo/ abbandona i palazzi dorati/ dove le mani sono sporche/ e si reca nelle dimore pie/ senza rispettare la potenza della ricchezza/ segnata falsamente dalla lode,/ e ogni cosa conduce al suo termine» (Eschilo, Agamennone).

Il dopoguerra gli offre la libertà di scegliere il suo futuro ed egli opta per l’America, dove gli viene offerto un incarico di insegnante. La complessità del suo stile non venne sempre compresa ma egli non cambiò mai il suo indirizzo tematico né lo stile. La mostra di Mendrisio offre un panorama completo della sua opera con elementi di profonda intensità espressiva.

Mendrisio (Svizzera), Museo d’arte, fino al 27 gennaio.