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Alla ricerca di una soluzione per Gaza

Dal 22 al 24 novembre si è tenuta a Roma la conferenza MED 2018 – Mediterranean Dialogues, una serie di incontri e dibattiti su alcuni tra i luoghi e i temi più delicati di questa fase storica nel Mediterraneo. Organizzata dall’istituto di ricerca Ispi e dalla Farnesina, l’iniziativa ha visto la partecipazione di capi di Stato e di governo, oltre che dei ministri degli Esteri di numerosi Paesi dell’area mediterranea. In questa cornice non poteva mancare un riferimento a Gaza e alla guerra evitata nelle scorse settimane. Nelle prime settimane di novembre, infatti, Israele era arrivato davvero vicino a un’operazione militare contro Hamas, il partito che controlla la Striscia dal 2007 e che viene considerato un gruppo terroristico in ampie parti del mondo, Unione europea compresa. Il conflitto si era evitato principalmente grazie alla mediazione internazionale e alla considerazione per cui un’offensiva sul modello dell’operazione Protective edge non avrebbe risolto i nodi politici alla base del problema.

Ma Gaza non è soltanto teatro del conflitto di lungo periodo tra Israele e Hamas, ma anche il terreno di scontro tra le due anime della politica palestinese, Hamas e Fatah, che attraverso l’Autorità nazionale palestinese (Anp) controlla invece la Cisgiordania. Proprio su questo dualismo ha insistito Riad Al Malki, il ministro degli Esteri palestinese, che a Roma ha voluto sottolineare la necessità di una riunificazione. «Noi andremo a Gaza – ha dichiarato – perché è nostro dovere, sarà un nostro impegno: fra una settimana, fra un mese o chissà quando, l’Autorità Nazionale Palestinese dovrà tornare ad esercitare i suoi poteri sul territorio palestinese di Gaza, che come Gerusalemme e la West Bank è sottoposto alla pressione militare israeliana».

Alcune ore prima del ministro Al Malki, la difficile condizione di Gaza era stata messa al centro dell’attenzione anche da Matthias Schmale, Direttore delle operazioni a Gaza per l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi. Secondo Schmale, in carica dall’ottobre del 2017, è necessario imparare dagli errori compiuti nell’ambito umanitario per individuare soluzioni differenti a un problema protratto. «Penso che una cosa fondamentale che dobbiamo imparare è che l’aiuto umanitario non è mai la soluzione a un problema politico, non possiamo confondere gli aiuti umanitari con una soluzione politica. A volte anche noi cadiamo in questo errore quando pensiamo e parliamo di aiuti umanitari che devono diventare sostenibili: l’unico modo per andare oltre gli aiuti umanitari è affrontare il problema originale, che nel caso di Gaza è il blocco, è l’occupazione, è l’assenza di una soluzione politica palestinese».

Ma che cosa significa vivere a Gaza oggi, a undici anni dalla vittoria elettorale di Hamas e a quattro anni dall’ultima guerra con Israele? «Sono impressionato ogni giorno lavorando a Gaza – osserva Matthias Schmale – per il tipo di persone che incontro, il tipo di educazione che hanno, la dedizione che mantengono, ma ho notato anche che i livelli di depressione e ansia verso il futuro sono cresciuti; un’indicazione di ciò sono i crescenti tentativi di suicidio. Abbiamo davanti un quadro complesso: la gente rimane resiliente e proattiva, ma i livelli di disperazione e ansia crescono. Questo è parte oggi della vita a Gaza».

L’ultima crisi potrebbe aver avuto l’effetto di rinnovare gli sforzi degli attori internazionali verso una soluzione negoziata di più ampio respiro. In questo senso l’iniziativa più credibile, secondo alcuni osservatori anche la più promettente, arriva dallo sforzo congiunto dell’Egitto e delle Nazioni Unite, che cercano di avanzare su un doppio binario di mediazione: uno tra Israele e Hamas per giungere a una tregua di lungo termine (“calma in cambio di calma”, come viene definita negli ambienti di sicurezza e difesa israeliana), che riparta dal “cessate il fuoco” del 2014 e che spiani la strada per un nuovo sviluppo di Gaza, e un secondo proprio tra Hamas e Fatah per una riunificazione delle amministrazioni palestinesi sotto l’autorità dell’Anp. Secondo Schmale, «è necessaria una soluzione politica, e se vogliamo rendere la vita più sopportabile per le persone, se vogliamo ridare loro la prospettiva, abbiamo bisogno di rinnovare l’attenzione verso un processo politico significativo che coinvolga tutti gli attori».

Tuttavia, mentre da un lato gli sforzi politici prendono forma, sconfessando di fatto la linea portata avanti da Israele e Stati Uniti, basata quasi interamente sullo sviluppo economico, dall’altra le scelte dei singoli Paesi rischiano di spingere verso una nuova esplosione della situazione. Le scelte compiute dall’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump hanno praticamente azzerato la possibilità di Unrwa di portare avanti le proprie attività, tanto in Palestina quanto nei campi profughi in Libano, Siria e Giordania. Gli Stati Uniti avevano infatti annunciato lo scorso 1 settembre che i fondi a Unrwa sarebbero stati azzerati, una decisione che riguarda circa cinque milioni di persone che fanno affidamento sulle scuole, sulle strutture sanitarie e sui servizi sociali gestiti dall’agenzia e che era stata giustificata dal presidente Trump con la definizione dell’Unrwa come di una «operazione irrimediabilmente imperfetta». Poco tempo prima erano stati tagliati circa 200 milioni di dollari di fondi a UsAid, organizzazione umanitaria molto attiva in Medio oriente. Gli Stati Uniti, racconta Schmale «erano il nostro più grande donatore fino a quest’anno, e avendo perso il nostro più grande donatore, o in termini monetari 360 milioni di dollari, abbiamo davanti una grande sfida, quindi ha reso il nostro lavoro molto più difficile dal punto di vista finanziario e dal punto di vista della sostenibilità, ma ha anche assunto una dimensione molto politica».

«Per la prima volta – prosegue Schmale – abbiamo un importante governo occidentale che mescola gli aiuti umanitari con la politica e questa è davvero una sfida, perché la gente a Gaza merita di essere a scuola, merita di avere assistenza sanitaria, merita di ottenere il cibo di cui ha bisogno e non dovrebbe essere una questione di aiuto che dipende dalla posizione stabilita dai donatori, quindi la politicizzazione degli aiuti che proviene da Washington è, dalla mia prospettiva, molto inutile e penso che sia inaccettabile».