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Varie traduzioni, una certezza: Dio non ci abbandona

Nel febbraio dell’anno scorso Riforma aveva chiesto al pastore Eric Noffke, professore di Nuovo Testamento alla Facoltà valdese di Teologia e presidente della Società biblica in Italia, un intervento per chiarire quali elementi di novità fossero stati introdotti da parte della Chiesa cattolica francese nella traduzione del Padre Nostro. Si trattava della richiesta: «et ne nous laisse pas entrer en tentation» che andava a sostituire il precedente testo: «et ne nous soumets pas à la tentation. Ora con lui cerchiamo di capire che cosa succede per il testo in traduzione italiana.

– Pochi giorni fa la Conferenza episcopale italiana ha dato il benestare all’introduzione, nel nuovo annunciato Messale, di una nuova traduzione della richiesta «non ci indurre in tentazione», proponendo di usare anche in ambito liturgico il testo della Bibbia Cei 2008 «non abbandonarci alla tentazione…»: si tratta di una innovazione corrispondente a quella francese?

«Sì e no. Nella traduzione francese mi sembra che si voglia attenuare la sfumatura negativa del verbo soumettre, proponendo una soluzione più aderente al testo originale. La traduzione della Cei 2008 è, invece, più libera».

– Se è così, la lettura teologica che sta alla base di queste innovazioni è anch’essa similare?

«Sì, credo che alla fine l’intenzione sia la stessa, cioè attenuare l’idea che Dio ci ponga Lui stesso la tentazione, per rimanere fedele a esempio all’idea, espressa nella lettera di Giacomo (1, 13), che Dio non tenta nessuno. Tanto più che, oggi, l’idea di un Dio che mette alla prova non viene facilmente accettata e quindi si cerca anche di andare incontro a questa sensibilità».

– Alcuni mesi dopo la decisione della Conferenza episcopale francese in Svizzera ha fatto discutere animatamente la proposta di una traduzione ecumenica del Padre Nostro. A parte le questioni di ordine filologico, qualcuno si chiedeva se per pregare insieme sia davvero indispensabile usare le stesse parole. Che cosa ne pensa? Si paventa forse che il Padre Nostro, che abbiamo familiare fin dalla nostra più tenera età, sia qualcosa che dobbiamo portare con noi sempre immutabile?

«Questo timore si manifesta ogni volta che viene proposta una novità, soprattutto in ambito religioso e, infatti, sono molto curioso di vedere le reazioni dei cattolici “di chiesa” all’uso della nuova traduzione anche nella liturgia. Come regola generale, le nuove traduzioni non sono mai accolte facilmente! Eppure queste, che non devono per forza sostituire le precedenti, sono importanti per farci comprendere meglio il testo: nessuna traduzione ci potrà mai dare la profondità dell’originale. È, quindi, normale essere affezionati a una certa versione del Padre Nostro».

– Dunque, come possiamo accogliere la mozione votata dalla recente Prima Assise della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, che raccomanda al Consiglio di «avviare colloqui con la Conferenza Episcopale Italiana e le chiese ortodosse per una nuova versione ecumenica del Padre Nostro»?

«Mi sembra una buona idea: sarebbe un segno visibile di unità se, almeno negli incontri ecumenici, potessimo condividere la stessa versione del Padre Nostro. Poi nella propria chiesa ognuno può continuare a usare il “suo” Padre Nostro. Un po’ come la Traduzione interconfessionale in lingua corrente (Tilc), che ci permette di condividere un testo biblico tradotto insieme».

– Il suo articolo scritto per Riforma era uscito quando stava per avviarsi la diffusione della Bibbia della Riforma, il volume del Nuovo Testamento voluto dalla Società biblica britannica e forestiera e dalla Società biblica in Italia, in occasione del 5° centenario della Riforma. In attesa dell’Antico Testamento, lei auspicava che arrivassero da parte delle chiese e dei singoli delle osservazioni, di cui tener conto nell’edizione successiva di tutta la Bibbia. A che punto siamo? Avete ricevuto indicazioni relative al testo del Padre nostro?

«Sì, abbiamo avuto alcune reazioni interessanti. Alla fine abbiamo optato per la traduzione “Non metterci alla prova, ma liberaci dal Male”. È chiaro che questa traduzione entra in conflitto, almeno apparentemente, con il passo di Giacomo citato prima; ma abbiamo ritenuto che fosse la più fedele alle intenzioni del testo originale. Senza dimenticare che in diversi passi biblici l’essere umano è in effetti messo alla prova da Dio (un caso esemplare è il libro di Giobbe). Ma il credente sa che anche nella prova Dio non abbandona le sue figlie e i suoi figli, per cui questa non sarà mai tanto forte da farci abbandonare la fede. Comunque lo si traduca, il testo del Padre Nostro alla fine presuppone la possibilità che ci si possa sentire messi alla prova o, perfino, abbandonati. Come Dio non ha abbandonato Gesù sulla croce, noi abbiamo la rassicurazione che Lui è sempre con noi. La richiesta di “Non metterci alla prova” nasce, dunque, dalla comune esperienza umana, illuminata dalla fede in un Dio che ci ama, e non dalla rappresentazione di un Dio severo, che ci obbliga a costanti verifiche della nostra vita».

Foto: Cosimo Rosselli, Il discorso della montagna, Cappella Sistina