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Contro la giornalista Mazzola ci fu il metodo mafioso

La Procura di Bari ha chiuso le indagini preliminari riconoscendo il carattere mafioso dell’aggressione subita dalla giornalista del TG1 Maria Grazia Mazzola mentre svolgeva il suo lavoro di inchiesta il 9 febbraio scorso a Bari sulla crescente militarizzazione del quartiere Libertà da parte dei clan che affiliano i minorenni.

Dopo nove mesi la verità è stata accertata: non si trattò di una semplice «lite tra donne», come qualcuno ha malevolmente insinuato e sostenuto anche sulla stampa, ma la giornalista fu minacciata di morte e colpita da uno schiaffo in pieno viso dalla pregiudicata Monica Laera, moglie del boss barese Lorenzo Caldarola ritenuto uno dei vertici del clan Strisciuglio di Bari, perché aveva osato mettere piede in via Petrelli, territorio controllato dal clan, e porre domande inopportune: la giornalista in compagnia di un cameramen, e munita di telecamere nascoste, stava raccogliendo notizie sul figlio della Laera, Ivan, imputato per violenza sessuale su una bambina di 12 anni.

La pm Lidia Giorgio della Direzione distrettuale antimafia di Bari ha contestato alla moglie del boss del quartiere Libertà vari reati: minacce, lesioni aggravate, associazione mafiosa. A Monica Laera, già condannata in via definitiva per mafia e ritenuto soggetto socialmente pericoloso, la Procura di Bari contesta l’articolo del codice penale 416 bis, perché la minaccia di morte e l’aggressione fisica avevano l’obiettivo di controllare il territorio, cioè il quartiere Libertà, facendo pesare il suo status di mafiosa e di moglie di mafioso.

Reato incardinato anche per Angela Ladisa, consuocera di Monica Laera, che quel 9 febbraio aggredì verbalmente i poliziotti intervenuti sul luogo dell’aggressione perché chiamati dalla giornalista.

«L’intimidazione è il modo per cancellare ogni notizia – ha dichiarato la Mazzola sulla sua pagina FB ufficiale, commentando la conclusione delle indagini preliminari –. Ci sono stati i falsi giornalisti, quelli che hanno scritto falsità e si sono fatti megafono di questa mafiosa. Quelli che mai hanno scritto che fosse una condannata. Ci sono stati i sindacalisti che mi hanno detto: “Ma non rischi niente! Vai a mangiare in centro a Bari che nessuno ti tocca”. Ci sono stati quelli che in un convegno hanno detto che non era certo che si sarebbe arrivati a processo per la mia aggressione. C cose tra donne che si sono spintonate. La giornalista si è solo spaventata… Si sa è una donna e le donne sono emotive. Vedete questo Paese non cresce, non si evolve perché l’informazione è ancora intrappolata nei luoghi comuni e nella superficie, nelle penne ubbidienti. Alle storie professionali forti e scomode non si dà rilievo pubblico. La conclusione delle indagini è forte. Ma vi imbatterete in poche righe».

In un altro post pubblicato sempre su FB, Maria Grazia Mazzola ha denunciato la solidarietà ipocrita e falsa di taluni sindacati e associazioni in cerca di pubblicità. «Tutti si vogliono costituire parte civile: funziona così… Per 9 mesi hanno sollevato dubbi sulla mia aggressione e seminato dubbi malevoli isolandomi. Ora che le indagini dicono che avevo ragione – aggravante mafiosa dietro la mia aggressione – gli stessi mi stanno marcando stretta per associare la loro sigla al mio nome… State lontani. Detesto il circo. Siete invitati a stare alla larga dal mio nome. State alla larga dalla mia testimonianza professionale quando andrò in Tribunale. Meglio soli che male accompagnati».

Maria Grazia Mazzola non va lasciata sola soprattutto ora che è stata acclarata l’origine mafiosa delle minacce subite. Maria Grazia e tanti altri giornalisti che come lei fanno inchieste scomode, non vanno isolati, ma incoraggiati e sostenuti nel difficile lavoro di ricerca della verità. La mafia si nutre del silenzio e dell’omertà, è dunque urgente far conoscere e diffondere la notizia che la Procura di Bari ha riconosciuto il metodo mafioso nell’aggressione alla giornalista. Come ha fatto fin dall’inizio, la redazione di Riforma.it continuerà a dare il suo sostegno alla collega Mazzola.