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La speranza di Stan Lee per un mondo migliore

Ieri è morto Stan Lee, il creatore dell’universo Marvel, “vecchio e sazio di giorni” come un patriarca biblico.

In un’Italia ancora pregna di ideologia gentiliana (la cultura è quella classica, pura, antica), di elitarismo culturale (la cultura è per chi ha fatto il Liceo), di resistenza alla contaminazione interculturale (siam tutti cattolici, anche i non cattolici), di provincialismo nazionalista (ma che vuole quest’Europa?), è difficile comprendere la caratura titanica di un autore come Stan Lee.

Sin dagli anni Quaranta, Stanley Martin Lieber era un orgoglioso autore di fumetti (e già questo…), quando a differenza di altri autori firmava le storie, pur con un nome d’arte, che poi però assunse quale suo nome a tutti gli effetti. Ebreo agnostico newyorkese: basterebbe questo per dire che fosse un liberal, dagli anni Novanta sostenitore aperto dei Clinton e di Obama, il quale gli ricordava qualcosa di Mr.Fantastic, il leader del Fantastici Quattro.

I suoi eroi rappresentavano tutto lo spettro del meltin’ pot americano. Ben Green, “La Cosa” dei Fantastici Quattro non solo era ebreo, con tanto di medaglietta con Stella di Davide al collo e partecipazioni a Bar Mitzvah, ma era la rappresentazione contemporanea del mito del Golem. Il motto di Peter Parker / Spiderman era «Da grandi poteri derivano grandi responsabilità», richiamando l’adagio protestante della “libertà nella responsabilità”, tanto caro — e pesante come un macigno — per luterani e calvinisti. Il cattolico Bruce Banner / Hulk, alle prese con il senso di colpa di un mostro interiore impossibile da controllare. Il re africano Black Panther, testimone di una civiltà che è superiore alle altre solo se si mette al servizio della pace, della giustizia e del progresso. L’avvocato Matt Murdoch, supereroe cieco, non disabile, ma (sul serio) diversamente abile. Nell’universo Marvel c’è posto per tutti, così come in America.

In un’intervista al Times of Israel <http://www.timesofisrael.com/a-marvel-in-comics/> nel 2012, Stan Lee ricorda: «[Nel 1963 scrissi] un libro intitolato “Sgt. Fury and his Howling Commandos”. Il sergente Fury poi diventò il colonnello Fury, il capo dello S.H.I.E.L.D., ma prima era solo un sergente col suo primo plotone: il primo plotone multietnico dei fumetti. C’era l’ebreo Izzy Cohen, il nero Gabriel Jones, c’erano un italiano, un inglese, un indiano americano, tutto quello che mi veniva in mente! Un plotone internazionale pinto di tutte le religioni e I popoli e la gente mi diceva: “E no, Stan, non puoi farlo. Il libro non venderà al Sud o al Nord o qui o lì”. Fu invece uno dei libri che vendette di più, dimostrando che c’è qualcosa di buono nel pubblico».

Il pubblico è migliore di come lo immagina chi produce prodotti per il consumo di massa: su questo Stan Lee ha scommesso. E ha vinto.

Ma il suo non era ottimismo cieco. Due esempi su tutti. Il primo è la questione della convivenza tra X-Men (esseri umani mutanti, potenziati da doni particolari) e gli esseri umani “normali”. La paura dei normali che si trasforma in persecuzione dei potenti, la paura dei mutanti che genera violenze inaudite. Il secondo è la questione della tensione tra potere politico e giustizia: cosa fare di fronte alla strumentalizzazione dello stato? È giusto servire lo stato, che nel bene e nel male rappresenta la Cosa Pubblica oppure è più giusto diventare supereroi in clandestinità? Questo dilemma è alla base del “Civil War” tra Iron Man, uomo fedele alle istituzioni repubblicane, del “right or wrong, it’s my country”, e Captain America, super-soldato, creato per sconfiggere il nazismo, patriota per eccellenza, che preferisce farsi chiamare solamente “Captain” e uscire dalla legge.

L’ottimismo di Stan Lee era rispetto al dibattito pubblico: la letteratura d’evasione deve far sognare, senza negare il pensiero, il ragionamento, il dubbio. D’altra parte, la distinzione tra letteratura alta e bassa appartiene ai romantici, agli elitari, agli idealisti, all’impostazione gentiliana, non all’America di Stan Lee, che si faceva chiamare “Generalissimo” per distinguersi dal razzista “Generale Lee”, leader dell’America Confederata nella Guerra Civile.

Negli ultimi vent’anni, complice la straordinaria evoluzione degli effetti speciali, le creature di Stan Lee hanno conquistato il cinema e il creatore è diventato un’icona pop, grazie ai suoi ironici camei in tutti i film Marvel. Stan Lee ha potuto vedere i suoi sogni prendere forma sul grande schermo in maniera realistica.

Negli ultimi anni era rammaricato di non poter più leggere, perché aveva quasi del tutto perso la vista: la lettura, il superpotere che tutti possono avere. Ma non aveva smesso di creare storie, di proporre sogni, che gli hanno donato l’immortalità dei grandi autori.

Stan Lee era, infatti, l’Omero americano, creatore di mondi e teogonie, cantore della civiltà del patto tra diversi per il bene comune, del contributo di ognuno alla costruzione della società, della responsabilità del singolo nei confronti dell’intera comunità. E, come Omero, non ci mancherà, ma continuerà a vivere nelle nostre esistenze, così affamate e assetate di narrazioni in grado non solo di non far affondare, ma di elevare l’essere umano a qualcosa di bello, superiore e giusto.