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No Way, qualcosa si muove

Il dibattito sulle migrazioni in Italia riguarda in modo pressoché totale il movimento di persone che attraversano il Mediterraneo e raggiungono le coste italiane, un flusso che in realtà non rappresenta che una parte, neppure maggioritaria, del fenomeno.

Per le persone in fuga dalle persecuzioni politiche e religiose nel sudest asiatico, oppure per gli abitanti delle isole del Pacifico che vivono gli effetti più estremi del cambiamento climatico, una delle naturali destinazioni è l’Australia, un Paese costruito nei secoli proprio sull’immigrazione ma che oggi mette in pratica politiche durissime nei confronti dei richiedenti asilo. Quando ad agosto, commentando il caso della nave Diciotti, il ministro degli Interni italiano Matteo Salvini proponeva la sua soluzione per gestire i flussi migratori verso l’Italia, il suo riferimento era proprio a queste politiche: «Il mio obiettivo – spiegava – è il No Way australiano».

Questo modello, che già dal nome (letteralmente “neanche per idea”) fa capire l’approccio, è applicato in Australia dal 2013, quando il governo conservatore guidato da Tony Abbott avviò una strategia basata sul massiccio schieramento di unità navali per sorvegliare le coste e sul fatto che chi arriva via nave non avrà mai garantito il diritto di stabilirsi legalmente nel Paese. Le imbarcazioni arrivate via mare, infatti, possono essere trainate verso i porti di partenza, mentre gli occupanti vengono inviati in centri di identificazione sulle isole di Christmas e Horn e nella città di Darwin, dove vengono valutate le richieste di asilo. Coloro che non hanno i requisiti per essere accolti vengono riportati nel paese d’origine, mentre gli altri ottengono permessi di soggiorno che non valgono in Australia ma solo in Papua Nuova Guinea e nell’isola di Nauru, Paesi vicini al governo australiano.

In questi cinque anni questi centri offshore sono stati oggetto di inchieste e reportage, come The Nauru Files, pubblicato su The Guardian, ma il governo australiano non ha mai cambiato la propria strategia, al punto che all’inizio del mese di ottobre Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha sollecitato il governo australiano ad affrontare con un’azione immediata la situazione sanitaria nelle strutture offshore in Papua Nuova Guinea e Nauru. Ai sensi del diritto internazionale, infatti, l’Australia continua a essere responsabile di coloro che hanno chiesto protezione.

«È dal 2013 – spiega Catherine Stubberfield, dell’ufficio regionale Unhcr di Canberra – che Unhcr esprime preoccupazioni molto profonde sulla situazione della gestione offshore australiana». Dal 2013, infatti, oltre 3.000 rifugiati e richiedenti asilo sono stati trasferiti forzatamente dall’Australia in Papua Nuova Guinea e Nauru. Di questi, circa 800 rimangono a Nauru e 650 in Papua Nuova Guinea. «All’inizio – prosegue – i rifugiati e i richiedenti asilo erano detenuti in detenzione formale, mentre progressivamente sono stati stipulati accordi più aperti nei Paesi di destinazione».

Nell’aprile 2016, la Corte Suprema della Papua Nuova Guinea aveva rilevato che le disposizioni sulla detenzione sull’isola di Manus violavano il diritto alla libertà stabilito dalla Costituzione della Papua Nuova Guinea, ma questo non è servito ad altro se non a modificare in parte le modalità di trattenimento. Da allora, la situazione non ha vissuto particolari evoluzioni, ma il governo di Canberra ha progressivamente ridotto, fino a tagliarlo del 50%, il budget disponibile per la cura dei rifugiati e dei richiedenti asilo “offshore”, nonostante il fatto che durante lo stesso periodo la popolazione nei centri sia diminuita solo del 7% e che le esigenze mediche siano costanti o addirittura, come sottolineato da Medici Senza Frontiere, siano in crescita.

In particolare, le circostanze e le condizioni in cui vivono i rifugiati in conseguenza della politica australiana di detenzione offshore hanno effetti fortemente negativi sulla salute, in particolare su quella mentale. Durante le proprie visite nei centri, diverse organizzazioni non governative hanno riscontrato che i tassi di depressione, ansia e disturbo da stress post-traumatico tra i rifugiati forzatamente trasferiti in Papua Nuova Guinea e a Nauru sono superiori all’80% in entrambi i Paesi, a oggi i tassi più alti mai registrati nella letteratura medica.

Ma se la situazione poteva apparire congelata, nelle ultime settimane qualcosa sembra essersi mosso. «Ciò che stiamo vedendo – racconta ancora Catherine Stubberfield – è una crescente comprensione popolare del lato umano di ciò che accade quando una pratica come questa viene messa in atto, le persone nelle varie comunità e in modo trasversale alla politica in Australia sono diventati sempre più preoccupati della situazione di persone normali, di uomini, donne e bambini, persone che hanno bisogno di aiuto e che dopo cinque anni hanno per esempio scoperto di avere diritto allo status di rifugiato». Nelle ultime due settimane più di 30 bambini sono arrivati sul suolo australiano, insieme alle loro famiglie, per ricevere cure mediche urgenti, la maggior parte per ordine del tribunale, ma la questione ha sfondato anche una barriera politica giovedì 25 ottobre la deputata liberale Julia Banks è diventata il primo membro del governo a chiedere pubblicamente che tutti i bambini e le famiglie detenute a Nauru vengano portati in Australia, accusando maggioranza e opposizione di aver fatto di questa vicenda una questione di consenso politico. Banks, inoltre, è la prima esponente del governo australiano a contestare ciò che l’esecutivo stesso sostiene da anni, ovvero che le famiglie di rifugiati a Nauru e Papua Nuova Guinea non sono realmente detenute.

Quanto accaduto alla fine di ottobre potrebbe segnare il primo passo verso un nuovo approccio alla questione, anche perché il modello No Way è stato giudicato in più di un’occasione una violazione delle normative internazionali sul diritto d’asilo. Tuttavia, secondo Unhcr, anche oggi non mancano le preoccupazioni, perché non sono soltanto i minori e le loro famiglie ad avere bisogno di cure, ma «tutti i rifugiati e i richiedenti asilo detenuti offshore – conclude Stubberfield – rischiano di arrivare a una condizione critica, anche perché se venissero trasferite solo alcune persone le altre rimarrebbero bloccate ed esposte a un rischio ancora più grande, una situazione che non possiamo ammettere».