eco_15_nov

I giornali valdesi e la Grande Guerra

Quinto articolo della serie dedicata alla Prima Guerra mondiale e le chiese protestanti italiane. Dopo l’intervista introduttiva allo storico Giorgio Rochat, dopo il pastore Emmanuele Paschetto che racconta cosa il conflitto ha rappresentato per il panorama delle chiese battiste in Italia, dopo la responsabile dell’Archivio storico della Tavola valdese Gabriella Ballesio sulla figura del moderatore Ernesto Giampiccoli e dopo la pastora di Letizia Tomassone con il racconto del ruolo delle donne nel primo conflitto mondiale ecco l’intervista al pastore Giorgio Tourn sull’importante ruolo dei giornali valdesi durante il conflitto. Buona lettura.

 

La prima guerra mondiale è stata per l’Italia, nel suo preambolo e nella fase iniziale, e quindi anche per il mondo valdese che dell’Italia faceva finalmente parte a pieno titolo, l’ultima guerra risorgimentale: il triveneto, l’Austria e via dicendo. Ma è diventata ben presto una tragedia totale; i racconti dei giornali valdesi, L’Echo des vallées nelle valli valdesi del Pinerolese e La Luce nel resto del Paese sono specchio di questo atteggiamento che muta nel tempo.

 Ne abbiamo parlato con il pastore e storico Giorgio Tourn.

«I vostri colleghi giornalisti in quel momento si rendono conto che i loro fratelli in fede vivono al buio – ci dice –, per cui l’unico aiuto che ritengono di poter dare loro è proprio il racconto della fede, o meglio di un atto di fede totale per superare l’immane buio che hanno davanti a loro. Devono quindi aiutare i credenti a vivere questa notte. Colpisce nei testi questo senso di comprensione e di attenzione rispettosa per i soldati come per i familiari a casa. Non c’è retorica».

– Cercare di mediare fra chi sta al fronte e chi aspetta a casa, tutt’altro che facile…

«Tenere uniti i soldati e non far trapelare troppo il dramma in corso alle famiglie, è certamente complicato. E poi non è da dimenticare la censura, il rischio di avere lo spazio bianco in pagina, per cui una certa prudenza è d’obbligo; i redattori cercano di attenuare il racconto del disagio, senza però certamente cadere in alcuna retorica trionfalistica. Alla donnetta di Pramollo cui muoiono tre figli uno dietro l’altro, ma che cosa si può andare a raccontare? Nulla, se non tentare di creare un tessuto di relazione, di appartenenza. Per il mondo valdese delle Valli è un’ecatombe, una generazione intera falciata, interi paesi senza più figli».

– Un alpino scrive dalla trincea sul Carso una lettera: «spero di ricevere l’Eco». Incredibile questa volontà, no?

 «Un altro salta in aria mentre sta scrivendo a casa, un compagno trova la lettera, la completa e la spedisce alla famiglia. Piccole grandi storie struggenti. Incredibile la tenacia nel portare i nostri giornali a tutti i militari, sul Carso, nelle trincee. Per i soldati è fondamentale leggere l’Eco, per sapere dove si trova un fratello, un amico; è un ruolo chiave del giornale».

– Già, le lettere, che negli anni della guerra assumono un peso sempre maggiore nel giornale…

«Fantastiche testimonianze, praticamente la metà sono in italiano e la metà in francese: in un’Italia che aveva picchi di analfabetismo incredibili i soldati valdesi scrivono senza problemi on due lingue, e anche questa è una caratteristica unica nel panorama nazionale. È un caso unico in Italia anche in senso lato: una comunità sociologica si ritrova in divisa. Il buon Pascal, un cappellano, racconta di una mattina in cui tiene un culto davanti a un battaglione composto per metà da valdesi. Le valli valdesi si sono spostate al fronte».

– C’è poi la scoperta dell’Italia. Gli italiani tutti imparano a conoscere una nazione molto più diversificata di quel che conoscevano. E i valdesi delle Valli scoprono il resto del Paese.

«Per il mondo valdese questo conflitto ha rappresentato anche il vero e proprio ingresso “pubblico” nel nostro Stato nazionale. In trincea, sulle tradotte, l’alpino di Belluno e quello che proviene dal Sud scoprono che esiste una religione diversa da quella cattolica, vede i cappellani valdesi pregare e li ascolta parlare, comprende che non è altro da lui, è figlio d’Italia come lui. La generazione successiva non si sentirà più soprattutto piemontese, ma finalmente italiana».