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Le donne e la Grande Guerra

Quarto articolo della serie dedicata alla Prima Guerra mondiale e le chiese protestanti italiane. Dopo l’intervista introduttiva allo storico Giorgio Rochat, dopo il pastore Emmanuele Paschetto che racconta cosa il conflitto ha rappresentato per il panorama delle chiese battiste in Italia e dopo la responsabile dell’Archivio storico della Tavola valdese Gabriella Ballesio sulla figura del moderatore Ernesto Giampiccoli oggi è il turno di Letizia Tomassone raccontare il ruolo delle donne nel primo conflitto mondiale. Buona lettura.

 

Nel 1918 il presidente Wilson (Usa), nel sostenere il voto alle donne, afferma: «Questa guerra non avrebbe potuto essere combattuta, né dalle altre nazioni né dall’America, se non fosse stato per i servizi resi dalle donne». La constatazione si riferiva al lavoro che le donne facevano nelle industrie di armi e nelle comunicazioni, o come militi nella Croce Rossa, come infermiere e dottoresse. Anche le donne delle associazioni evangeliche e anche a Firenze preparavano i pacchi per i giovani soldati evangelici in trincea, pacchi con indumenti di lana, zoccoli e creme di cui l’esercito forniva anche la ricetta. Li spedivano con poche righe di corrispondenza che esprimeva l’attenzione e l’amore tra le comunità di fede e i soldati.

Eppure in ambito protestante fu forte il collegamento tra suffragiste e pacifismo. Nel 1915 all’Aja si era svolto il Congresso internazionale delle donne pacifiste del movimento suffragista. Quel movimento portava avanti la riflessione avviata nella Convention di Seneca Falls del 1848 sul senso morale delle donne che avrebbe voluto trasformare in senso positivo e pacifista la società.

In tutto questo, sia le pacifiste sia le interventiste erano impegnate sul fronte sociale: per l’accesso delle donne a un lavoro pagato, per un pari salario, per un sostegno economico alla maternità che sottraesse la donna alla tutela del marito. Sul fronte «spirituale» si parlava di «maternità sociale», cioè della capacità di comporre di conflitti e di migliorare e difendere la vita umana. «La vita è piena di poteri di riparazione nascosti», scrive una suffragista americana.

Questa capacità di costruire una posizione di pacifismo radicata nell’esperienza della vita quotidiana delle donne ha influenzato il movimento nonviolento delle donne anche ai giorni nostri.

Lidia Menapace, per esempio, scrive che nella vita familiare e quotidiana vi sono continuamente conflitti gestiti in modo non-bellico, ossia non fondati sulla dialettica amico-nemico. Proprio a partire da questa sapienza di vita le donne possono contribuire a costruire una diplomazia altra, che porti a livello delle nazioni e della politica ciò che è già intessuto nella quotidianità delle relazioni.

La storica Anna Bravo prova a rileggere la prima guerra mondiale a partire da questa sapienza delle relazioni che si sviluppa nella quotidianità. Vi sono testimonianze su come si sviluppasse in trincea un senso morale di vicinanza. Si avvertono i vicini dell’attacco imminente, si avverte del cambio della guardia, si concordano tregue: per il cibo, per il cattivo tempo, per soccorrere i feriti, nel Natale del 1914 e poi del 1915. Il soldato sostituiva alla virtù eroica del combattimento la virtù quotidiana della cura. Questo conteneva un potenziale antibellicista e di critica alla polarità dei ruoli maschile e femminile, che però non portò frutti una volta finita la guerra. Infatti tutto questo verrà denunciato dagli ufficiali come tradimento: l’inerzia e la passività delle truppe in trincea era diventato un sistema per sopravvivere e lasciar vivere.

Estraneità, passività e una indifferenza voluta sono anche le virtù che Virginia Woolf propone di fronte all’agitarsi bellicista degli «uomini colti». Una frase di Virginia Woolf esprime la posizione di estraneità delle donne alla guerra nazionalista e diventa un elemento di forza fino a oggi per la nonviolenza femminile: «Io in quanto donna non ho patria. In quanto donna, la mia patria è il mondo intero». Dopo aver argomentato nella sua lettera «Le Tre Ghinee» sulla necessità di finanziare l’istruzione superiore femminile e l’accesso a un lavoro che offra indipendenza economica alle donne, Virginia Woolf accetta di dare la terza ghinea al movimento antifascista, senza una fittizia fedeltà all’idea di patria, ma perché le tre cause sono inseparabili.

Anche Bertha von Suttner, con il suo romanzo di fine Ottocento Giù le armi e con la sua opera intrecciata al lavoro di Alfred Nobel per la pace, ci appare come una voce importante che lotta contro l’economia degli armamenti e contro le virtù belliciste patriarcali. Con molte conferenze e tanti scritti denuncia l’opera di una educazione che esalta la guerra costruendo per i ragazzi il mito della virilità e smaschera il legame tra guerra, povertà e ruoli di genere.

C’è sempre stata una tensione nella presenza delle donne nelle lotte per la liberazione, da un lato spinte all’adesione alle guerre maschili nazionaliste, dall’altra in qualche modo ai margini di quei valori virili, perché impegnate sul fronte della libertà femminile. Dovremmo riscoprire le analisi delle suffragiste e delle pacifiste di inizio Novecento per capire in che modo possiamo oggi contrastare venti di guerra ed economie che costruiscono nemici per produrre sempre nuovi armamenti.