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Una storia che nasce dal libro

Nel descrivere l’inizio della vita pubblica di Gesù in Galilea, Luca si sofferma, nel capitolo 4 su un particolare: è sabato e Gesù è in sinagoga a Nazareth, «dove era cresciuto» (v.16). Quando si alza, gli viene consegnato il rotolo del profeta Isaia e Gesù legge il passaggio che diventerà il programma della sua missione. Sembra ovvio ma Gesù sa leggere e scrivere. Davanti a tutti legge ad alta voce . La sua lettura viene probabilmente tradotta in aramaico, affinché tutti comprendano il contenuto della pericope: in pratica un culto bilingue a cui partecipa Gesù. La parola perché sia viva, deve essere letta e ascoltata. È questo un testo scritto in ebraico, che come tante altre lingue del mondo è composta da segni, che vanno intrepretati altrimenti restano lettera morta: un po’ come i segni degli spartiti musicali, che quando vengono interpretati nel canto o nel suono di uno o più strumenti, improvvisamente prendono vita. È un processo lungo e faticoso quello che conduce a dar vita a dei segni, ed è grazie all’acquisizione della capacità della lettura che siamo diventati autonomi. Molti hanno trovato nella lettura la capacità di dare un nome a sentimenti, emozioni, speranze. Scrivere, leggere, ascoltare: tutto nasce dal libro.

Anche la nostra storia religiosa europea nasce dal libro. Nella primavera del 1179 una delegazione valdese, partita mesi prima da Lione, si presenta ai padri conciliari in Roma. Portano con sé il Liber, la loro versione in lingua volgare, di parti della Bibbia la cui traduzione Valdo aveva commissionato. I valdesi portano al papa il LIber perché, durante il III Concilio lateranense conceda una legittimazione alle scelte del movimento: la richiesta, se accolta, avrebbe messo in crisi il monopolio della gerarchia che riguardava sia la lingua del Libro sia la gestione esclusiva della relazione del popolo con Dio. A causa del Liber arriverà presto la condanna definitiva, ma il Liber stesso rimarrà la principale fonte d’ispirazione del movimento.

Il Libro spingerà poi i valdesi, tre secoli e mezzo dopo, a entrare nella corrente riformata svizzero-francese. La storica svolta (settembre 1532) venne onorata dall’iniziativa presa dall’assemblea dei capifamiglia: far tradurre in francese l’intera Bibbia partendo dai testi originali ebraici e greci. In poco tempo, si stamparono clandestinamente, grandi Bibbie in formato da pulpito. Come proposto 350 anni prima da Valdo, si trattava di permettere a tutti di raggiungere un confronto personale con la Scrittura. La Bibbia tradotta, letta, meditata, spiegata, interpretata – che diventerà tema centrale della Riforma – è nutrimento della fede. Per questo loro attaccamento alla Bibbia i protestanti saranno definiti «popolo del Libro».

Facendo un balzo in avanti nell’Ottocento e ai primi decenni del Novecento, attraverso l’opera dei numerosi colportori valdesi, metodisti, liberi o dipendenti della Società biblica, i protestanti italiani furono percepiti come infaticabili venditori di Bibbie e letteratura evangelica. Negli anni del Risorgimento e successivi circolava in molte parti d’Italia la carrozza biblica (Bible van), evoluzione di quel famoso carretto carico di Bibbie che due evangelici, il 20 settembre 1870, condussero attraverso la breccia di Porta Pia. Una storia tanto affascinante quanto ritmata da sofferenze, incomprensioni, polemiche, scontri, sacrifici.

Oggi in tutti i nostri locali di culto campeggia, non sul marmo dell’altare ma sul tavolo di legno della Santa Cena, una Bibbia aperta. È lì a significare che al centro della vita della chiesa c’è quella «biblioteca» che costituisce la Bibbia. Una vita non basta per conoscerla e capirla a fondo. Quel Libro aperto è di fronte a noi non come un oggetto sacro ma come programma e sfida della comunità. Sfida che per ipotesi potremmo anche evitare: ci sono i teologi, i biblisti, i pastori e le pastore, ci pensino loro a spiegarcela… Ma delegando ad altri il compito di affrontare il testo biblico rischieremmo di scivolare in una deriva clericale. Il Sola Scriptura e il sacerdozio universale dei credenti ci invitano ad assumere questa sfida. La nostra passione di riformati è quella di scavare e cogliere, al di là della lettera, lo spirito del testo biblico, e capire cosa tutto ciò significhi per noi oggi.

 Leggere la Bibbia ci fa scoprire come anche la Bibbia ci legga. E lo fa offrendoci parole capaci di formulare la nostra ricerca fede: un esercizio che non dovrebbe essere limitato ai momenti di crisi o disperazione. Bisogna trovare l’energia che ci faccia tornare, in ogni situazione, sui banchi della scuola della Parola di Dio, aprendoci all’esperienza trasformatrice che la lettura, nella ricerca di senso e direzione, genera. Un’esperienza che ci aiuta anche a ritrovare noi stessi. La vita della nostra chiesa, oggi molto attenta agli aspetti sociali, culturali, diaconali, può far pensare che la nostra predicazione, teologia e spiritualità siano una questione secondaria,. Ritrovare un sano equilibrio tra l’impegno sociale, culturale e quello biblico teologico e spirituale è essenziale. Se questo Libro aperto davanti a noi fosse ridotto a un simulacro, che rispettiamo ma che di fatto non leggiamo, finiremmo presto per perdere quella Parola di cui abbiamo bisogno per capire che cosa stiamo a fare in questo paese. Non abbiamo altro da offrire, se non questo Libro che ha legato le generazioni di credenti sino a oggi, e due compiti oggi ci competono: scavare tra queste pagine, per riuscire a esprimere una testimonianza biblicamente argomentata; osare l’interpretazione, utilizzando quanto la scienza può offrirci nella scoperta della verità che il testo racchiude. C’è qualcosa di più importante di questo esercizio personale e comunitario per onorare, al meglio delle nostre possibilità, la fede che Dio, in Cristo, ci ha donato?