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Quarant’anni e nessuna certezza per il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza

Può un diritto acquisito da quarant’anni essere messo in discussione? Quando si parla dell’interruzione volontaria di gravidanza, la risposta sembra essere affermativa. Appena insediato, il ministro per la Famiglia, Lorenzo Fontana, aveva chiarito la propria contrarietà al ricorso all’interruzione di gravidanza, a suo parere motivato spesso da ragioni economiche. Lo scorso 10 ottobre, invece, era stato papa Francesco a tornare sul tema ribadendo la posizione storica della chiesa cattolica, rispetto a quella che il Papa ha paragonato alla pratica di «affittare un sicario» per «risolvere un problema».

Tra queste due prese di posizione, il voto del Consiglio comunale di Verona il 4 ottobre ha approvato una mozione con lo scopo di finanziare le associazioni cattoliche che si oppongono all’interruzione di gravidanza, promuovere il progetto regionale Culla segreta e a proclamare ufficialmente Verona «città a favore della vita». Siamo di fronte a un ritorno politico di battaglie contro l’interruzione volontaria di gravidanza, che nel 1978 era stata normata dalla legge 194? Per Lidia Maggi, teologa e pastora battista, «è come se la politica non riuscisse a conservare uno spazio di laicità che permetta di distinguere il linguaggio religioso cattolico da quello di uno Stato laico».

Un problema, questo, che è in apparente contrasto con il processo di secolarizzazione in corso anche in Italia, pur se con un certo ritardo rispetto ad altri Paesi. In realtà, come afferma Maggi, si tratta di un «uso strumentale della religione per fini che non necessariamente hanno a che vedere con il Sacro, con la Fede; non a caso alcuni paladini di questo linguaggio non necessariamente sono così intransigenti dal punto di vista dell’etica sessuale». Nei luoghi della politica, insomma, la religione diventa linguaggio, simbolo e strumento, ma ancora di più elemento aggregatore di correnti politiche che vanno dalla destra parlamentare ai movimenti più conservatori all’interno anche del mondo cattolico, fino ad abbracciare l’estrema destra.

Il linguaggio è centrale: non può infatti essere ignorato che nel proclamarsi «città a favore della vita», Verona fa propria una retorica che da anni si fonda sulla contrapposizione tra vita e morte come elementi di appartenenza e di schieramento. Secondo Lidia Maggi, quella di Verona «è una mozione molto strumentale, che non vuole tanto affrontare il tema del controllo e della decrescita delle nascite, quanto piuttosto di dare un segnale politico forte». Nel testo votato il 4 ottobre si fanno analisi sulla legge 194, sui consultori e sulle gravidanze nell’adolescenza, ma mancano considerazioni sulla contraccezione o su percorsi educativi all’interno delle scuole, delle famiglie e della società civile. «Mi sarei aspettata – racconta Maggi – che una città a favore della vita, che vuole ridurre gli aborti, facesse un serio lavoro sul lavoro all’interno dei consultori, e non li considerasse solo come luoghi che, com’è stato scritto, devono semplicemente indicare altre vie per le donne che vi si rivolgono per l’interruzione della gravidanza. In questo modo si infantilizza la donna, ritenendo che quando arriva a una scelta così radicale, così drastica e così sofferta lo faccia con molta superficialità. Mi ha molto offeso questa idea secondo cui l’aborto è una tecnica di controllo delle nascite, di contraccezione».

Anche senza metterla in discussione, in realtà, a quarant’anni dalla sua approvazione la legge 194 è in molte parti d’Italia sostanzialmente disapplicata. «Sempre di più – riflette Lidia Maggi – ci troviamo di fronte a strutture ospedaliere piene di medici obiettori, che attuano questa strana obiezione secondo cui chi paga le conseguenze non è l’obiettore, ma la donna che non riesce a vedere riconosciuti i propri diritti all’interno del tempo stabilito, che sono i primi tre mesi della gravidanza». In questa fase politica, conclude, «vengono meno principi come la dignità della donna, l’impossibilità di utilizzare il corpo della donna per fini politici o religiosi e lasciare alla donna la possibilità di autodeterminarsi, rimuovendo tutte le cause che impediscono alle donne una maternità responsabile».

Un clima difficile, insomma, per diritti che venivano percepiti come un punto fermo e che oggi sembrano doversi rinegoziare sin dalle basi.