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Camerun, la svolta dopo 36 anni?

In Camerun si sono svolte domeniche le elezioni presidenziali e dopo 36 anni esatti sembra terminata l’era di Paul Biya, 85 anni, in politica dai tempi dell’indipendenza del paese dalla Francia, era il 1960.

Un presidente al centro ovviamente di pesanti critiche per la distanza mostrata dai problemi drammatici della nazione: fra tutti valgano gli attacchi dei terroristi di Boko Haram (123 civili uccisi e 250 mila sfollati interni nel solo 2018) e la questione delle rivolte nelle regioni anglofone, sedate nel sangue (almeno 400 vittime quest’anno) senza però riuscire a fermare la proclamazione di un’indipendenza per ora non riconosciuta a livello internazionale né tanto meno a quello locale.

 Da anni le province un tempo inglesi si battono per una maggiore autonomia, in chiave federalista o indipendentista, e al contempo lamentano le discriminazioni patite, l’esclusione dai ruoli chiave della società, della politica. Per questo hanno boicottato le elezioni, e le violenze si sono allargate a macchia d’olio. Il Camerun appare allo sbando, battuto da truppe mercenarie che saccheggiano e terrorizzano, e con un esercito che ha mano libera nelle repressioni, spesso sommarie.

In aggiunta le tornate elettorali di tutti questi 36 anni sono sempre state al centro delle critiche degli osservatori internazionali per brogli, ma nulla ha mai scalfito l’imperturbabilità di Biya.

Vincitore delle votazioni sarebbe Maurice Kamto, 64 anni, già ministro della Giustizia dal 2004 al 2011. Il condizionale è ancora d’obbligo.

In entrambi i recenti incontri del Comitato esecutivo della Comunione mondiale di chiese riformate (Wcrc) e nel Comitato centrale del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec), i leader della Chiesa del Camerun hanno parlato della violenza, della persecuzione e dell’ingiustizia affrontate dagli anglofoni in Camerun in quello che è un conflitto civile praticamente non narrato dai grandi media. Le voci della Chiesa sono tra le poche a richiamare l’attenzione internazionale su un conflitto mortale che solleva lo spaventoso spettro di uccisioni di massa dello stesso livello di quanto visto in Ruanda. 

Le chiese protestanti, che nel paese sono numerose e fortemente radicate, tentano di far sentire una voce di pace, di dialogo. In particolare è stata la Chiesa presbiteriana in Camerun (Pcc), a pubblicare una dichiarazione ufficiale che non esitava a proporre soluzioni politiche alla crisi in corso fra le regioni francofone e quelle anglofone, in minoranza, unite al resto del paese a seguito di un referendum nel 1961. La necessità, si legge nel testo, «è quella di adottare subito misure in grado di far ripartire il dialogo» Ecco come: «va creata immediatamente una commissione d’inchiesta indipendente che faccia luce sulle violenze commesse dalla polizia e punisca i colpevoli; le due regioni anglofone vanno demilitarizzate, devono cessare gli arresti arbitrari, i detenuti vanno liberati; tutti i membri delle nostre Chiese devono astenersi da qualsivoglia violenza e devono diventare strumenti di pace».

Come diventare strumenti di pace è spiegato poco oltre: «La chiesa presbiteriana è disposta ad assumersi l’incarico di costituire, insieme ai responsabili di tutte le altre chiese, una piattaforma aperta capace di giocare un ruolo di mediazione fra il governo centrale e i rappresentanti delle province anglofone».

La Cevaa, la Comunità delle chiese in azione, a sua volta ha fatto proprio il testo e ha invitato le 35 chiese membro a impegnarsi sulla questione. La Cevaa conta fra i membri 3 chiese del Camerun, la Chiesa evangelica del Camerun, l’Unione delle chiese battiste del Camerun e la Chiesa evangelica luterana del Camerun, tutte con una lunga storia di radicata presenza nel paese, a partire dai primi decenni del XIX secolo. Protestante è la prima università del paese, fondata a Yaoudè. Battista era Joseph Merrick, il primo missionario a giungere nel paese nel 1844, che fondò le prime chiese nel sud-ovest del paese. La missione presbiteriana statunitense arriva invece nel 1871, proveniente dal vicino Gabon.

L’assemblea generale della Cevaa aprirà i battenti proprio la settimana prossima, il 15 ottobre, a Douala, la più grande città, o meglio agglomerato urbano, del Camerun, e certamente i delegati, compresi quelli della Chiesa valdese, avranno modo di ragionare sulla crisi in corso nel paese.

Biya era uno dei “regnanti” più longevi al mondo, molti dei quali concentrati fra Africa e repubbliche ex sovietiche.

Il record man poteva essere Jose Eduardo dos Santos, per 38 anni alla guida dell’Angola fino al 2017 quando non si è ricandidato per motivi di salute. Si sarebbe invece riproposto volentieri Robert Mugabe, per 37 anni al potere in Zimbabwe, non fosse stato destituito nello stesso 2017

Il recordman ora è Teodoro Obiang Nguema, presidente della Guinea Equatoriale da 39 anni. Alcuni anni fa un programma radio lo ha definito un “dio” e nel paese vige un fortissimo culto della sua personalità. Del resto le nuove generazioni non hanno conosciuto altri uomini al comando se non lui. Tutti i discorsi pubblici, ad esempio, devono terminare con una frase di auguri al presidente.

Ali Khamenei è al secondo posto: presidente dell’Iran prima e poi Guida Suprema da 36 anni, Khamenei è al contempo anche un leader religioso. oltreché politico.

Seguono Hun Sen, primo ministro della Cambogia dal 1984, 34 anni al potere e Yoweri Kaguta Museveni alla guida dell’Uganda dal 1986.