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L’occupazione della Libia, una storia italiana

Di Libia sentiamo parlare molto, quasi ogni giorno, per via delle rotte migratorie, degli abusi subiti dai migranti durante la loro sosta nel paese, per via degli accordi con lo stato italiano. Frammenti di una storia certamente incompleta su un paese complesso e dal passato recente particolarmente tumultuoso. Ma la storia ci porta indietro a quando chi si muoveva verso quella parte dell’Africa, erano gli italiani, in quel periodo colonialista che ha caratterizzato buona parte degli stati europei tra XIX e XX secolo. A ormai cento anni da quella storia è stata allestita la mostra, L’occupazione italiana della Libia – Violenza e colonialismo 1911-1943, realizzata dieci anni fa dal Centro per l’Archivio Nazionale di Tripoli, con la collaborazione di Salaheddin Sury, uno dei maggiori storici libici dell’età contemporanea, e la curatela dello storico Costantino Di Sante. Un percorso che prova a dare uno sguardo originale e lucido su quella che è stata la presenza italiana in Libia tra il 1911 e il 1943.

Centinaia di fotografie e moltissimi documenti sono in mostra fino al 22 novembre, presso la Casa della Memoria e della Storia di Roma.

Ne parla il curatore Costantino Di Sante.

Com’è nata questa mostra e con quale scopo?

«È nata per riallacciare una memoria che quasi sicuramente si è persa e cercare di combattere l’analfabetismo sul nostro colonialismo, non solo in Libia ma anche nel corno d’Africa. Parla del rapporto che abbiamo avuto con queste terre e per ricordare che qualsiasi colonialismo, anche il nostro, ha fatto uso di violenza. La mostra è nata per recuperare il nostro passato con un paese così vicino, di cui si parla molto ma di cui si conosce molto poco: basti pensare alle varie tribù che erano presenti anche nel periodo del nostro colonialismo e che componevano non già lo stato unitario, eco di un impero romano riesumato successivamente, bensì una realtà frammentata. Conoscere questo nostro passato e il passato della Libia ci aiuta secondo me a capire il presente, le complicazioni nel trovare una soluzione alle difficoltà di questo martoriato paese negli ultimi anni. La mostra è stata realizzata come collaborazione con alcuni studiosi libici ed è in doppia lingua, arabo e italiano. Questo per non restare eurocentrici nella realizzazione di mostre o collaborazioni culturali. Non è stato semplice collaborare su questi temi ma ci siamo riusciti».

Cosa a portato questa collaborazione da un punto di vista sia storico che umano?

«Questa mostra non solo serviva a noi italiani per riallacciare questo rapporto, per sollecitare la conoscenza del colonialismo italiano in Libia, ma anche gli stessi libici per tornare su argomenti che sicuramente durante il regime di Gheddafi, sono stati usati in maniera strumentale. Noi abbiamo cercato di contestualizzale l’incontro, e non solo lo scontro coloniale, sebbene non potevamo non incentrare la mostra, come ricorda il sottotitolo, alle violenze che ci sono state. Nel settembre del 1911 comincia l’occupazione e un mese dopo partono le deportazioni nelle colonie di detenzione dei resistenti libici, che non si piegano. Gli italiani si aspettavano un’accoglienza trionfale credendo di essere visti come una minaccia per l’impero ottomano che occupava quel lembo di terra. Così non fu e la resistenza continuò fino almeno al 1931. Ci vollero parecchi anni, come si diceva allora, per “pacificare la Libia” e l’uso di mezzi come i campi di concentramento per le popolazioni nomadi e seminomadi e le armi chimiche contro la popolazione civile. La mostra parla di questi momenti cruenti e anche quella che è stata poi la vicenda dei coloni mandati verso quel lembo di terra che rappresentavano il simbolo del colonialismo italiano: un colonialismo demografico, un’occupazione costituita da braccia in esubero. Molti italiani rimasero fino al 1970, quando furono cacciati dal paese. Ci sono state alcune difficoltà nelle relazioni con gli studiosi libici nel periodo in cui la mostra è stata realizzata, tra il  2008 e il 2009, quindi ancora con Gheddafi, su alcuni temi. Soprattutto non è stato facile trovare, non dico un compromesso, ma un giusto equilibrio rispetto alle modalità in cui presentare alcuni temi nel percorso della mostra»

La storia ha sempre qualcosa da insegnare, questa cosa ha da dirci oggi?

«Soprattutto vuole parlare di rispetto delle culture diverse. All’epoca si aveva una visione di quel territorio come un luogo da civilizzare e, come tutti i colonialismi, quando si va a occupare non lo si fa pacificamente. La mostra ci dice come la Libia sia complessa oggi come allora; certo, oggi a pesare ancor di più c’è l’influenza economica del petrolio che definisce il paese come luogo strategico nel gioco geopolitico. Ci insegna a riprendere in mano la nostra storia coloniale, il modo in cui noi europei, non solo noi italiani, abbiamo depredato altri luoghi e altre culture. Fare i conti col passato forse ci può aiutare a comprendere meglio ciò che sta accadendo con i vari fenomeni migratori»