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Yemen, un anno per scoprire nuove verità

Le indagini sullo Yemen non si fermano. In uno scenario sempre più preoccupante, questa è probabilmente l’unica buona notizia in arrivo dalla punta più meridionale della Penisola Arabica. Venerdì 28 settembre, infatti, il Consiglio delle Nazioni Unite sui Diritti Umani ha deciso di estendere la missione del gruppo di esperti deputato a indagare sui crimini di guerra e sulle violazioni del diritto umanitario in Yemen.

Superando le obiezioni dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati, lo Human Rights Council ha deciso quindi di andare avanti con il lavoro investigativo del gruppo di esperti internazionali nominato lo scorso anno, accettando quindi un voto a maggioranza e rinunciando alla ricerca del consenso. Per Charles Garraway, membro del gruppo di esperti già durante la prima indagine, «come al solito ci sono lati positivi e lati negativi. Il mandato è stato rinnovato e questo era un passaggio critico, perché ci sono numerose aree che richiedono ulteriori indagini. Tuttavia è negativo il fatto che il mandato non sia stato rinnovato con una risoluzione consensuale, unanime. Il risultato è che certi Stati hanno votato contro il rinnovo e potrebbero decidere di non cooperare con la nuova missione. Se questo scenario si dovesse verificare, prima di tutto sarebbe estremamente difficile accedere allo Yemen, perché la coalizione controlla lo spazio aereo. In seconda battuta, sarebbe estremamente difficile parlare con la coalizione stessa per discutere con loro dei problemi che abbiamo identificato e che vorremmo fossero chiariti».

Al centro della discussione, proprio il rapporto presentato a settembre dal gruppo di esperti e duramente contestato da Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, che l’hanno giudicato troppo parziale: troppo duro con la coalizione a guida saudita e troppo indulgente nei confronti dei ribelli Houthi. Un’accusa falsa, secondo Garraway. «Noi abbiamo cercato di guardare alle due parti in modo equilibrato. Il paradosso è che se la coalizione non dovesse cooperare con noi e noi non potessimo accedere allo Yemen, allora il pericolo sarebbe quello di rendere più difficile per noi investigare le violazioni compiute dagli Houthi, che si sono sicuramente verificate. Abbiamo infatti identificato una serie di loro crimini, in particolare in relazione alla detenzione, e li abbiamo indicati  nel nostro rapporto. Tuttavia l’impossibilità di accedere in particolare all’area di Taiz, dove sono in corso pesanti combattimenti tra gli Houthi e le forze della coalizione, significa che non siamo riusciti a esaminare da vicino le accuse di utilizzo indiscriminato di armi».

Il Consiglio, composto da 47 membri, ha espresso 21 voti favorevoli al nuovo mandato, 8 contrari e 18 astenuti, un risultato caratterizzato dal muro alzato dall’Arabia Saudita, che chiedeva almeno alcune sostituzioni nella composizione del gruppo di esperti. Le divisioni nel Consiglio sembrano riprodurre quelle sul terreno della guerra, in cui l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti stanno combattendo a fianco delle milizie yemenite contro i ribelli Houthi, sostenuti invece dall’Iran e insediati nella capitale, Sana’a, e in gran parte del nord, dopo aver rovesciato il governo del presidente Abdu Rabbu Mansour Hadi alla fine del 2014.

Ma a che cosa servirà questo nuovo mandato, chiesto proprio dal gruppo di esperti, che lamentavano di non aver avuto abbastanza tempo per condurre le proprie indagini? Sono due gli aspetti ritenuti più rilevanti: «il primo – chiarisce Charles Garraway – è Taiz, in cui dobbiamo avere la possibilità di accedere. Abbiamo bisogno di ottenere il permesso di entrare in Yemen e abbiamo bisogno anche delle garanzie di sicurezza per accedere nella città. Questo ci aiuterà a capire precisamente cosa sta succedendo sul terreno». Inoltre, per la coalizione è «di pari importanza» riuscire ad avviare un dialogo con la coalizione a guida saudita a proposito delle procedure per l’individuazione degli obiettivi. «Va detto – prosegue Garraway – che ci hanno già fornito delle informazioni, ma sono arrivate dopo che il nostro rapporto era stato completato e inoltre non erano abbastanza dettaglate per essere davvero utili. Se la coalizione collaborerà con noi, potremmo davvero esaminare il loro processo di individuazione degli obiettivi cercando di capire se ci sono dei problemi e in tal caso aiutare la coalizioni a gestirli e superarli».

Intanto, la guerra continua senza realistici orizzonti di pace. Nessuno sa neppure esattamente quante persone siano morte in questi tre anni e mezzo di guerra: le Nazioni Unite hanno smesso di tenerne traccia oltre due anni fa, quando erano già state registrate oltre 10.000 vittime. Inoltre, la guerra ha trascinato a fondo un Paese che era già il più povero dell’intera regione, portando 8 milioni e mezzo di persone sull’orlo della fame e creando una gravissima epidemia di colera, al punto che le Nazioni Unite ritengono si tratti della peggior crisi umanitaria attualmente in corso nel mondo.

In questo scenario, sembra difficile trovare soluzioni. L’opzione militare ha già dimostrato la sua inefficacia, tanto a livello nazionale quanto a livello regionale. «Da parte nostra – afferma Charles Garraway – c’è pieno supporto al processo avviato da Martin Griffiths, il rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite. Credo che la chiave stia lì, la risposta a tutto questo riguarda la popolazione yemenita: non le potenze straniere, non l’Iran, non l’Arabia Saudita, non gli Emirati Arabi Uniti o chiunque altro. La soluzione va trovata nella popolazione yemenita, e prima queste persone si siederanno allo stesso tavolo a discutere tra loro, senza influenze straniere, prima avremo possibilità di arrivare a una soluzione». In questo senso, l’ultimo tentativo delle Nazioni Unite è fallito alla fine di settembre, quando i rappresentanti della milizia ribelle Houthi non si sono presentati a Ginevra puntando il dito contro le restrizioni imposte al loro movimento. Ma la speranza è che il lavoro che Griffiths sta svolgendo possa servire per avviare una nuova sessione di negoziati.

Eppure, ogni settimana la situazione sembra complicarsi, più che chiarirsi: negli ultimi giorni nuove tensioni sono scoppiate tra il governo internazionalmente riconosciuto, guidato dalla capitale saudita Riyadh dal presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi, e i separatisti del Sud, le forze di Aidaroos al-Zubaidi, che vorrebbero maggiore autonomia per lo Yemen del Sud e sono sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti in funzione anti-Houthi. Paradossalmente, mentre votavano contro al rinnovo del mandato ispettivo e sostenevano i ribelli nella loro azione, proprio gli Emirati ribadivano il loro «pieno supporto» all’azione di Griffiths, che infatti mercoledì 10 ottobre sarà ad Abu Dhabi per incontrare le controparti emiratine. «Qualsiasi azione capace di ridurre la tensione nell’area mediorientale va supportata, perché aiuterà a risolvere i problemi che stanno alla base», afferma Charles Garraway. «L’intera area è in crisi, ma risolverne almeno un pezzo sarebbe un punto di partenza. Se si può cominciare a costruire fiducia nell’area si potrà avviare un percorso che sarà certamente lungo, ma che da qualche parte dovrà pur partire, magari proprio da qui. Va avviato un processo che deve portare a una pace di ampio respiro in tutta la regione».