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Un passo indietro sullo Sprar

Con il decreto Salvini su sicurezza e immigrazione, approvato all’unanimità dal governo Conte nella giornata di lunedì 24 settembre, vengono introdotte nel sistema dell’accoglienza italiano una serie di novità, tra cui la sostanziale abolizione della protezione umanitaria, fortemente ridotta nelle sue fattispecie di applicazione, oppure la sospensione delle richieste di asilo per chi commette un reato considerato segno di pericolosità sociale.

A cambiare è anche il servizio Sprar, sigla che indica il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, che con il decreto diventa Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati. In sostanza, i richiedenti asilo non saranno più ammessi alle pratiche di formazione e inserimento socio-lavorativo portate avanti finora da una rete che oggi conta oltre 1.200 comuni, per un totale di 35.881 posti finanziati nel 2018.

Secondo le intenzioni del decreto, d’ora in poi l’accoglienza diffusa sarà riservata soltanto a chi ha già ottenuto la protezione internazionale e ai minori non accompagnati, mentre per tutti gli altri la destinazione sono i Cas, i Centri di accoglienza straordinaria, luoghi in cui spesso si sono verificati problemi tanto per gli ospiti quanto per i territori, anche per la natura emergenziale delle strutture e per la minore profondità del percorso. Eppure, era stato lo stesso ministro degli Interni, Matteo Salvini, a scrivere nella sua relazione del 14 agosto che i centri Sprar «si pongono come ponte necessario all’inclusione e come punto di riferimento per le reti territoriali di sostegno, avviandosi, in tal modo, processi più solidi e più facili di integrazione», «un modello che risponde all’esigenza di superare i centri di grandi dimensioni».

Debora Boaglio, coordinatrice del servizio migranti della Diaconia Valdese, spiega che, con l’entrata in vigore del decreto, si nota «una paradossale controtendenza rispetto a quello che è stato il lavoro svolto negli ultimi anni, per cui il servizio centrale dello Sprar, insieme ad Anci e insieme poi alle progettazioni territoriali, avevano l’obiettivo di ridurre progressivamente il numero dei Cas, ovvero di questa accoglienza emergenziale, dove non sempre venivano svolti determinati servizi, a favore del sistema coordinato, organizzato, monitorato e controllato dello Sprar». Il punto, infatti, è che il mandato dei progetti di accoglienza dei Cas non prevede strumenti di accoglienza rivolti all’integrazione della persona. «Questo mandato – prosegue Boaglio – è lasciato abbastanza all’etica delle organizzazioni che portano avanti questa progettazione, mentre invece lo Sprar lo prevede, parla proprio di “servizi minimi garantiti” da svolgere a favore della persona ma soprattutto a favore dei territori, conscio del fatto che questo processo di inclusione non sia assolutamente un processo semplice, ma ci sia bisogno di professionalità per svolgerlo». Dello stesso avviso Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato immigrazione di Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni italiani. «Come sistema dei comuni – racconta – abbiamo fatto un lavoro nel corso di questi anni insieme al ministero e al tavolo del terzo settore, anche per i territori. Lo Sprar aiuta i territori a far sì che quel percorso che è previsto dalla Costituzione, di tutela del diritto d’asilo, venga svolto nella maniera meno impattante e più funzionale. Da lì uscivano persone che sostanzialmente avevano già svolto un percorso formativo e quindi erano in grado di gestire la propria vita all’interno di una comunità e di una città in modo più lineare e semplice, che non creava tensioni, che cercava di far sì che quel percorso inclusivo diventasse in un modo o in un altro una situazione metabolizzata».

Anche guardando alla relazione del ministero degli Interni dello scorso 14 agosto, la scelta di restringere l’accesso al sistema Sprar sembra difficile da spiegare. Oltre al parere globalmente positivo del ministro Salvini, infatti, nella Relazione sul funzionamento del Sistema di accoglienza predisposto al fine di fronteggiare le esigenze straordinarie connesse all’eccezionale afflusso di stranieri nel territorio nazionale, inviata al Parlamento, si descrive una situazione in netto miglioramento, lontana dal concetto di emergenza. «Con i numeri attuali degli sbarchi del 2017 e del 2018 – prosegue Biffoni – chiudere i grandi centri Cas, fonte di tensione e di rabbia sul territorio e di incapacità di inclusione delle persone che ci sono dentro, per andare verso un sistema più esteso e diffuso nei comuni, era fattibile, era un indirizzo che poteva davvero compiersi nel giro di qualche tempo. Questo decreto mette non solo un paletto nel cuore di questo percorso, ma fa l’esatto opposto». Il rischio è che i primi a pagare per questa scelta siano proprio i territori. «Le persone accolte nei Cas – spiega infatti Debora Boaglio (Diaconia Valdese) – vivranno sostanzialmente il forte rischio di finire in quelli che negli anni passati sono stati i grandi centri di accoglienza, perché non dovendo più erogare servizi di integrazione il rischio è che l’ottimizzazione delle risorse favorisca poi l’insorgere nuovamente di grandi strutture di accoglienza, ghettizzanti, di forte impatto sociale sui diversi territori. Oltretutto, nel momento in cui una persona dovesse concludere il proprio percorso da richiedente asilo in questo tipo di progetto e vedersi riconosciuta la protezione umanitaria, questa persona non avrà più diritto ad alcuna misura di accompagnamento all’inclusione sociale: i titolari di protezione internazionale dovrebbero automaticamente entrare nello Sprar, ma a questo punto non è detto che vi siano Cas e progetti Sprar in continuità territoriale, quindi una persona potrebbe iniziare il proprio percorso sul territorio di Torino per poi finire nello Sprar di Bergamo, dove non ha intessuto alcuna rete sociale, e dovrebbe ricominciare da capo il proprio percorso di inclusione».

Se non ci dovessero essere cambiamenti né su segnalazione del Presidente della Repubblica, né nel passaggio parlamentare che dovrà avvenire entro 60 giorni, il decreto dovrà essere applicato su tutto il territorio nazionale, anche se per via della sua formulazione non dovrebbe avere effetto retroattivo. Ma come cambierebbe il lavoro sul campo da parte degli operatori, a quel punto mirato a mitigare gli effetti della riduzione del ruolo del sistema strutturale di accoglienza? «È la grande domanda di questi giorni», racconta Boaglio. «Sicuramente la centralità del nostro pensiero va alle persone che accogliamo e diciamo che per quanto possibile continueremo a cercare di offrire tutti gli strumenti e tutti i potenziali servizi utili a non andare direttamente al collasso improvviso.

In accoglienza abbiamo attualmente persone che hanno appena iniziato il percorso e persone che sono quasi al termine, quindi sicuramente il primo ruolo che andremo a svolgere sarà quello, come tutte le volte, di informare la persona. Sarà poi lei a scegliere se restare nell’accoglienza o andarsene via, quindi da parte nostra la prima cosa che si fa è informare, mettere a disposizione tutte le risorse che abbiamo o che avremo, per supportare il percorso di ognuno». «Siamo molto preoccupati», conclude Matteo Biffoni (Anci). «Dopo quello che è successo con i finanziamenti al bando periferie, adesso questo, che mette in difficoltà ovviamente le persone che sono dentro a questo sistema, le donne, gli uomini, in accoglienza, e mette in difficoltà, in affanno, i territori. Questo significherebbe un ulteriore strappo istituzionale. Dopo aver fatto presente i rischi che questo decreto comporta, a quel punto ci regoleremo di conseguenza anche per quanto riguarda i rapporti istituzionali: così come per il bando periferie il presidente Anci ha rotto le trattative, lo dovremo fare anche su questo tema. Noi ovviamente come sempre saremo responsabili, cercheremo di fare tutto, abbiamo fatto un discorso sullo Sprar assumendoci delle responsabilità che sono quelle dello Stato sia per dare una risposta migliore a queste persone che arrivano sia per dare risposte migliori ai territori. Se qualcuno vuol fare in modo che questo percorso venga minato, non staremo zitti a guardare».