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È il momento della pace in Sud Sudan?

Mercoledì 12 settembre il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, ha firmato un accordo di pace con l’ex vicepresidente e capo delle principali milizie ribelli, Riek Machar. Il Paese più giovane del mondo, nato soltanto nel 2011, sta vivendo dalla fine del 2013 una guerra civile che ha causato la morte di decine di migliaia di persone e ha costretto un terzo della popolazione, poco meno di quattro milioni di sudsudanesi, a fuggire dalle proprie case. «Oggi – ha affermato al momento della firma Festus Mogae, ex vicepresidente del Botswana nominato al vertice dell’organismo per il controllo del cessate il fuoco (Jmec), istituito dal blocco regionale dell’Africa orientale, Igad – speriamo di aprire un nuovo capitolo e una nuova opportunità per costruire una pace duratura e portare la stabilità nella Repubblica del Sud Sudan».

Anche David Shearer, capo della missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan, ha espresso la speranza che questa sia davvero la fine del conflitto, dopo che la firma di un precedente accordo nel 2015 non aveva condotto a nessun risultato. In quell’occasione Kiir e Machar erano tornati insieme al governo, ma dopo pochi mesi i combattimenti erano ripresi.
Il giorno dopo la firma è cominciata una fase di pre-transizione di otto mesi che dovrà portare alla ricostruzione vera e propria del sistema politico del Paese, e condurre entro il 2022 a nuove elezioni. Nel frattempo, un comitato sarà responsabile della delimitazione degli Stati federali, che dovranno rispettare i territori suddivisi su base etnica e tribale. Il quorum del Consiglio dei ministri, necessario al governo per prendere decisioni, dovrà ora raggiungere 23 ministri, di cui sei dell’opposizione. Inoltre, sarà creata una forza con soldati dei Paesi Igad per garantire l’applicazione del testo sul terreno.

La comunità internazionale, rappresentata ai negoziati da Regno Unito, Stati Uniti e Norvegia, sembra scettica, ma per quanto vago l’accordo potrebbe servire a interrompere le violenze. Dello stesso avviso è il giornalista Luca Attanasio, esperto della regione e autore di numerose inchieste in Africa e Medio Oriente. Secondo Attanasio, «purtroppo in Sud Sudan non bisogna mai dare nulla per scontato». «Questo stesso accordo – prosegue – ha presentato una serie di accidenti lungo il percorso piuttosto notevoli». In particolare, il riferimento è allo scorso 28 agosto, quando il leader dell’opposizione, Riek Machar, aveva lasciato il tavolo dei negoziati, ritornandoci soltanto dopo un intenso lavoro dei mediatori, soprattutto del ministro degli Esteri del Sudan. «Detto ciò – chiarisce Luca Attanasio – va salutata con molta positività la notizia che in ogni caso questa volta erano presenti al tavolo praticamente tutte le forze in campo, a differenza delle altre volte, e che tutti hanno siglato questo accordo. Il Sudan e gli stati della Regione, come l’Uganda, si sono fatti garanti di questo processo, e questo fa ben sperare».
Tuttavia, l’impressione è che questo accordo abbia sciolto alcuni nodi politici, ma non abbia risolto i problemi che stavano alla base della guerra civile, scoppiata nel 2013 per rivendicazioni legate alla gestione del potere in diverse zone del Paese. Inoltre, internamente a questo conflitto si erano create numerose sotto-fazioni, addirittura un centinaio secondo alcuni analisti, che non hanno fatto altro che rendere ancora più polverizzato il conflitto. «In questo Paese – racconta Attanasio – che appena 7 anni fa sembrava all’alba di una nuova storia pacifica e serena, avendo conquistato democraticamente l’indipendenza dal Sudan, si sta vivendo una delle tre crisi peggiori al mondo, tanto per numero di profughi e di sfollati interni che per numero di morti. A questo vanno ad aggiungersi tutta una serie di fattori, come le carestie cicliche e la povertà endemica, in gran parte dovute all’uomo: non bisogna pensare che il Sud Sudan o altre parti della regione siano permanentemente soggette a carestie o a problemi di tipo ambientale in sé e per sé, ma lo sono diventate a causa della guerra. In alcune zone, da anni non si va più a coltivare non ci si occupa del bestiame, e ciò rende il terreno incolto incoltivabile e quindi in carestia». A causa di problemi come questi, trovare un accordo era diventato sempre più difficile, e la forma politica stabilita dall’accordo sembra testimoniarlo: il governo che si dovrà formare sarà probabilmente il più grande al mondo, composto da un presidente, cinque vicepresidenti e oltre 40 ministri, a cui vanno ad aggiungersi viceministri e sottosegretari. «Chiaramente – conclude Attanasio – si può dire che va bene così, e che basta che tutti siano calmi, ma è difficile che tutti siano calmi visto che ci sono, come si dice, “troppi galli a cantare”». Insomma, per ora la vera pace è soltanto potenziale.