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C’è anche un’ Ungheria differente

C’è un’ Ungheria desiderosa di mostrare a chi vive fra i suoi confini, e al resto del mondo, che il modello di solidarietà che ha in mente il primo ministro Viktor Orbán non è il pensiero unico presente a Budapest e dintorni. Ancora nella giornata dell’ 11 settembre il premier ungherese, in un intervento al Parlamento europeo, ha reso evidente in maniera forse mai così dura che il suo paese non si farà carico dell’accoglienza di migranti; un vero e proprio atto di sfida all’Europa, che ha reagito con le votazioni sull’avvio delle tardive sanzioni a carico dell’ Ungheria. Quasi scontato dunque, per chi opera nel campo dell’assistenza e dell’accoglienza, rivolgere lo sguardo al di là del bacino dei Carpazi, fatti salvi i progetti sociali nazionali rivolti alla popolazione magiara .

Così ha fatto anche la Chiesa riformata in Ungheria che nelle scorse settimane ha inviato una propria équipe medica in Bangladesh, per prestare soccorso alle migliaia di rifugiati della popolazione Rohingya in fuga dal Myanmar a causa delle persecuzioni patite per via della propria fede islamica, in una nazione, l’ex Birmania, a grandissima maggioranza buddista.

Accanto alle attività assistenziali, di particolare importanza sono stati vari momenti formativi rivolti a medici e paramedici che operano nei campi profughi che sorgono più o meno improvvisati lungo il confine fra le due nazioni asiatiche. «Durante la nostra visita di due settimane, abbiamo fatto del nostro meglio con le nostre capacità e con le opportunità che ci venivano offerte. La nostra missione è riuscita con la soddisfazione di tutte le parti in causa, soprattutto delle realtà locali», ha riassunto Márton Juhász, direttore del team.

Dentisti, chirurghi plastici, ostetriche, infermiere, addetti alla terapia intesiva, fisioterapisti, impegnati a mettere al servizio degli altri le proprie conoscenze: «Vogliamo mostrare alle persone che vivono al di fuori del bacino dei Carpazi che i riformati ungheresi stanno aiutando gli altri, usando la diaconia come braccio esteso della chiesa», ha scritto Dániel Osgyán, responsabile della logistica e sicurezza della missione sul sito ufficiale della chiesa ungherese. Al suo arrivo in Bangladesh il gruppo è stato invitato a tenere corsi di formazione per medici professionisti locali che lavorano nei campi profughi. Alla prima sessione di esercitazione, hanno partecipato circa 30 membri del personale medico, che si sono concentrati sui trattamenti da contagio, ustioni o altre ferite gravi. La seconda sessione si è svolta con 15 professionisti sul protocollo di trattamento degli incidenti di massa. Si sono quindi tenute attività di formazione sulla riabilitazione post-chirurgica: «Qui ci sono molti incidenti automobilistici, quindi le amputazioni sono comuni. Lo staff medico locale ha appreso le nozioni di base per insegnare ai pazienti a utilizzare le stampelle, nonché le modalità migliori per farli sedere o trasportarli», prosegue Osgyán. Ferenc Sári, capo medico della delegazione: «Abbiamo migliorato costantemente le loro tecniche, in due ore tutti coloro che hanno partecipato alla nostra sessione di formazione sono riusciti a raggiungere il livello nazionale standard». È stato inoltre chiesto alla squadra ungherese di visitare le stazioni di rifornimento in cui transitano gli aiuti umanitari da smistare e distribuire alla popolazione, al fine di migliorarne le procedure. Il team ha lavorato in due piccoli gruppi: metà della squadra a svolgere le sessioni di formazione per il personale medico locale e l’altra metà a fornire servizi medici nel campo profughi di Kutopalong. Il team nel campo ha integrato il sistema impostato da organizzazioni locali e da altre organizzazioni internazionali. «Nonostante le sofferenze e le difficoltà patite la popolazione Rohingya mantiene un atteggiamento eccezionale: siamo stati accolti con un sorriso e abbiamo condiviso le loro vicende. Vedere quella scintilla negli occhi, pur in mezzo a tanta sofferenza,ci deve far riflettere, a noi seduti dietro comode scrivanie» conclude Sári.

Chissà se sono fischiate le orecchie a re Orbán, che proprio della Chiesa riformata in Ungheria è fervente membro, sempre pronto a inaugurare campanili e altari, in maniera davvero bipartisan anche nei confronti nella chiesa cattolica, tessendo in questa maniera una tela in cui troppo tardi in molti si sono accorti di esser finiti invischiati. Dubitiamo. «Aiutiamoli a casa loro» è in fondo un teorema con maglie larghe e che si può plasmare e declinare in mille modalità differenti. Alcune nobili come questa, altre strumentali a un tornaconto politico che fa de «l’importante è che non sia nel mio cortile» la propria ragione d’essere e di consenso.