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Un segnale forte dal Parlamento europeo

Mercoledì 12 settembre il Parlamento europeo, riunito in sessione plenaria a Strasburgo, ha approvato una mozione con cui si segna l’avvio delle procedure per l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona all’Ungheria, una misura che apre la strada a sanzioni che potrebbero culminare addirittura nella sospensione del diritto di voto per Budapest in sede europea.

La mozione, che ha visto 448 deputati votare a favore, 197 contro e 48 astenersi, rappresenta una “prima volta” per l’Europarlamento, anche se non si tratta di un percorso del tutto inedito. «Già qualche mese fa – precisa infatti Elly Schlein, eurodeputata di Possibile, membro del gruppo dei Socialisti e Democratici – ci siamo già trovati a votare per l’attivazione dell’articolo 7 nei confronti della Polonia», ma in quel caso l’iniziativa proveniva dalla Commissione, l’altra istituzione che può avviare una procedura di attivazione di un articolo del Trattato, sempre insieme al Consiglio europeo. In questo caso, perché la mozione passasse era necessaria la partecipazione al voto della maggioranza assoluta dei 751 parlamentari, e quindi almeno 376 voti, e il parere favorevole dei due terzi dei votanti.

Secondo il rapporto redatto dalla verde olandese Judith Sargentini, incaricata dal Parlamento di esaminare la situazione nel paese, il governo ungherese guidato da Viktor Orbán e dal suo partito, Fidesz, che appartiene al Partito Popolare Europeo, sta violando sistematicamente le regole democratiche e lo stato di diritto che stanno alla base dell’Unione europea. Martedì 11 settembre questo rapporto era stato oggetto di discussione a Strasburgo, e in quell’occasione lo stesso primo ministro ungherese aveva respinto tutte le accuse, ritenendo questa procedura una semplice vendetta per il disimpegno ungherese nell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

Negli ultimi anni, il primo ministro ungherese Orbán ha approvato norme che limitano la libertà di stampa e quella delle associazioni non governative che lavorano nel campo dell’accoglienza. Inoltre ha introdotto leggi che criminalizzano l’immigrazione clandestina e altre fortemente discriminatorie nei confronti delle persone di fede musulmana.

Fra i partiti italiani, hanno votato a favore della mozione il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico, mentre Lega e Forza Italia si sono espresse in modo contrario per motivi differenti, ovvero per vicinanza politica nel caso della Lega e per appartenenza alla “famiglia popolare europea” per il partito di Berlusconi.

Come accennato, con questo voto il Parlamento avvia un processo che, dopo diversi passaggi, potrebbe portare alla sospensione del diritto di voto dell’Ungheria in sede europea, anche se il procedimento è estremamente complesso. Dal punto di vista tecnico, infatti, il voto avvia le procedure per l’articolo 7 ma non chiede l’applicazione di sanzioni, un ruolo che spetta invece al Consiglio europeo.

Elly Schlein, perché si è deciso di segnalare proprio l’Ungheria?

«Diciamo subito che sarebbe meglio che non capitasse da nessuna parte, di dover intervenire con un atto politico-istituzionale così forte, perché è una decisione senza precedenti, ma deriva appunto dalla gravità della situazione riscontrata in Ungheria da molti punti di vista. Nel rapporto, che ovviamente è lungo e articolato, si segnalano tanto le limitazioni ai poteri della Corte costituzionale quanto i profili di contrazione dell’indipendenza dei giudici e quelli di violazione della libertà di stampa, la corruzione nell’utilizzo di fondi europei, i diritti delle minoranze messi a repentaglio da legislazioni che li colpiscono profondamente. Insomma, non parliamo solo di migranti e rifugiati come invece ha voluto cercare di strumentalizzare Orbán. Lui ha affermato che la volontà è quella di punire il suo Paese perché ha scelto di non essere un Paese di immigrazione. In realtà quello sui diritti dei rifugiati arriva come dodicesimo capitolo, quindi è senz’altro importantissimo, ma qui si tratta anzitutto delle violazioni strutturali allo stato di diritto e ai principi democratici fondamentali, tra cui l’uguaglianza e la non discriminazione. È un dossier molto corposo e infatti ha convinto la grande maggioranza del Parlamento».

Nel cercare di raggiungere i numeri necessari, molto dipendeva dall’atteggiamento dei Popolari, che in effetti non hanno votato in modo compatto. Che segnale arriva in questo senso?

«È un buon segnale, perché alcuni colleghi hanno messo il rispetto dei principi fondamentali dell’Unione europea prima delle appartenenze di partito. Ma è anche un segnale che va nella direzione di una rottura: è da qualche tempo che c’è una forte tensione, con la cancelliera Merkel in particolare, ma anche con altri leader dei Popolari europei. È un voto storico che ha riunito una maggioranza non scontata».

Secondo Orbán la mozione è una punizione per gli ungheresi. È così?

«No, il voto non è contro gli ungheresi, ma è contro politiche che ledono i diritti degli ungheresi e non solo. Adesso speriamo che il Consiglio europeo abbia un sussulto di dignità a difesa della credibilità come l’ha avuto il Parlamento. Non si può più tollerare che entro i confini europei vi sia una violazione sistematica di quei principi fondanti che abbiamo posto alla base del nostro stare insieme».

Lei ha citato il Consiglio europeo, a cui spetta il prossimo passaggio. Quali possibilità ci sono che si vada avanti?

«La procedura dell’articolo 7 è particolarmente complessa, era stata scritta evidentemente nella speranza o nella convinzione che non sarebbe mai stato necessario applicarlo. Si prevede un primo passaggio in Consiglio, dove siedono i governi europei, con una maggioranza dei quattro quinti, che è già molto alta, solo per constatare il rischio evidente di violazione grave dei principi fondamentali dell’Unione. C’è poi un altro passaggio che vede protagonista il Consiglio europeo, nel qualesarà necessaria addirittura l’unanimità. Ovviamente la Polonia, così come altri amici di Orbán, hanno già chiarito che metteranno il veto e quindi il percorso di questa attivazione sarà particolarmente tortuoso».

Quindi possiamo parlare di un voto principalmente simbolico? Questo in qualche modo diminuisce la portata della decisione?

«No, questo non toglie nulla al fatto che almeno il Parlamento europeo abbia fatto il suo dovere con un’ampia maggioranza. È stato anche un momento molto forte ed emozionante, perché ha dimostrato di avere chiaro il ruolo che in questa fase delicata ha l’organo che è espressione diretta dei cittadini europei. Tra l’altro segna una battuta d’arresto rispetto all’assedio che questa “internazionale sovranista” sta portando avanti da tempo ai fondamenti dell’Unione stessa, cercando di minacciarne la tenuta con la leva della paura. Questo infatti non succede solo in Ungheria, quindi direi che il messaggio di ieri l’abbiamo mandato forte e chiaro a tutti quei governi che hanno la tendenza di voler trarre solo i benefici di far parte dell’Unione calpestandone i principi e senza mai condividerne le responsabilità».

In che modo questo si applica all’Ungheria?

«Ricordiamo che l’Ungheria è uno dei Paesi più premiati dai fondi di coesione, ha ricevuto nel corso dell’ultimo settennato 4,5 miliardi di euro. Ecco, scommetto che questo Orbán agli ungheresi si dimentica di dirlo. Invece è uno dei Paesi che non ha fatto voluto fare alcuno sforzo di solidarietà per l’accoglienza, si è rifiutato di fare i ricollocamenti promessi a Italia e Grecia, ed è indicativo che sia la Polonia sia l’Ungheria ne abbiano fatti zero. Io credo che questo sia un atteggiamento ipocrita e infantile: non si possono volere solo i benefici di stare nell’Unione, bisogna condividerne regole e responsabilità».

Con questo voto si segna, a suo parere, un contrasto tra la sovranità ungherese e le istituzioni europee?

«Diciamo che in questo senso l’atteggiamento di Orban è preoccupante, ma non è il solo, forse è anche quello di qualche nostro ministro: ritenersi al di sopra delle leggi, delle costituzioni e dei trattati. Invece per fortuna c’è un principio che accompagna da molto tempo le nostre culture giuridiche, quello per cui tutti sono sottoposti alla legge, alle costitutioni e ai trattati e chi ha una maggioranza nelle urne non ne è svincolato, ma anzi ha una maggiore responsabilità nel rispettarli e nel farli rispettare».