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Ramin Hisen Panahi, il martirio di un uomo

Dopo mesi e mesi trascorsi nel braccio della morte, il 23enne Ramin Hisen Panahi, attivista e prigioniero politico del Kurdistan Rojhalat (Kurdistan dell’Iran, dove vivono circa nove milioni di curdi)) è stato impiccato all’alba del 9 settembre nel carcere di Raja’i Shahr a Karaj (provincia di Hengaw).

Lo ha denunciato il fratello Amjad chiedendo quindi alla comunità Internazionale di condannare sia l’avvenuta esecuzione, sia quelle già avvenute o previste per altri detenuti politici in Iran. Era stato accusato – senza alcuna prova – di essere un membro di Komala, uno dei partiti curdi del Kurdistan Rojhalat in lotta contro il regime iraniano. Inutili gli appelli delle associazioni in difesa dei diritti umani e dei suoi familiari.

Qualche giorno prima Ramin Panahi era apparso in un breve video. Con voce roca, aveva voluto comunque ringraziare i suoi familiari, i suoi amici e il suo popolo per il sostegno che gli era stato dato durante tutti questi mesi. Il ventiquattrenne militante curdo era stato condannato a morte in aprile – nel processo di appello – dalla Corte suprema di un Tribunale Islamico Rivoluzionario. Al momento della seconda condanna era ancora in sciopero della fame (da gennaio) per protestare contro le condizioni della detenzione e per l’impossibilità di difendersi (aveva potuto incontrare il suo avvocato solo una volta).

Rimasto ferito in una imboscata tesa dai pasdaran a un gruppo di quattro militanti (lui, Ramin Penahisi, era disarmato), veniva sottoposto a torture.

In maggio sua madre si era rivolta con un drammatico appello a Federica Mogherini – rappresentante UE per la politica estera e la sicurezza – affinché l’Unione Europea intervenisse contro l’esecuzione,(con la data già stabilita) di Ramin. La riprendo integrale, a futura memoria: «Questa è la lettera di una madre da un piccolo comune nel Kurdistan iraniano. Una madre il cui cuore ogni giorno si riempie della paura che una parte del suo cuore venga giustiziato. Capisce cosa significa? Sono una madre con un cuore in fiamme. Da tre anni non c’è sollievo. Da lunghi anni sostengo i miei figli che parlano di legalità e giustizia. Ma qui tutto è vietato. Quello che vivo oggi ricorda l’inferno. Sono sicura che avrà sentito il nome di Ramîn Hisên Penahî. Perfino se Ramîn dovesse aver fatto un errore, la sentenza contro di lui non può essere un’esecuzione. Ho ragione con quello che dico? Ramîn è un attivista politico. Vogliono giustiziarlo perché hanno costruito un sistema della menzogna. Vorrei che Lei incontrasse i responsabili in Iran e fermi l’esecuzione di Ramîn. L’Iran deve essere condannato davanti alla Corte di Giustizia Europea. Per via di mio figlio piccolo Ramîn ogni giorno è un peso per me. Si metta nella mia condizione. Faccia qualcosa per impedire questa catastrofe. Sono certa che Lei possa fare qualcosa. Vorrei che si impegni seriamente per fermare questa decisione. Non permetta che Ramîn venga giustiziato».

Tutto inutile. Come a Pretoria all’epoca dell’apartheid, anche a Teheran le forche della vergogna sono sempre all’opera.