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La vita delle parole: prossimo

Il prossimo è il più vicino: chi ci sta di fronte, accanto, in un contatto quasi fisico. La persona che vedi, che senti, su cui puoi posare la mano. Al Samaritano che incontra il moribondo si squarciano le viscere, il cuore si spacca. Lutero parla, a questo proposito, di «grida di dolore». Il Samaritano non lascia la vittima sola ma la con-sola, le sue viscere sono mosse a compassione.

Eppure quel poveretto non è un parente, una persona cara, è semplicemente un uomo ferito. È la ferita, quasi fosse una feritoia, a costituire un ponte verso l’altro, a creare il simile. Il cuore si spacca in due per accogliere chi è altro da me. Perché nell’amore per il prossimo non conta tanto chi abbiamo dinnanzi ma il nostro accostarci a lui. Il prossimo non è ideologia ma ciascuno nella sua irriducibile singolarità; non è amore per l’umanità ma per la specificità di ognuno.

Lo sguardo orizzontale, quello verso il prossimo, ha l’obbligo della sfumatura, di abbracciare il particolare fino a renderlo universale, di cogliere, all’interno della contraddizione, lo straziato essere umano. E, affinché l’uomo e la donna non siano orfani di quello sguardo orizzontale, essi debbono ritrovare un rapporto verticale con Dio.

Dio: è lui il fondamento, la possibilità del nostro amore per gli altri. Lasciarsi invadere e smuovere dal suo amore per noi non è più facile né meno importante dell’amare chi abbiamo accanto. Per accogliere questo amore incondizionato che ci viene incontro ci vuole coraggio e apertura dell’essere, il contrario di ogni orgoglio e presunzione di autosufficienza. Lasciarsi amare è qualcosa di più dell’essere amati, presuppone un dire di sì a Dio. Diventa insomma una scelta consapevole, la prova che ciò che conta non è solo ciò che sappiamo dare ma anche quello che sappiamo ricevere.