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Qual è il problema con la religione in Europa?

Negli ultimi decenni il processo di secolarizzazione in Europa è diventato sempre più marcato, che si è tradotto anche in leggi che hanno cambiato il volto di molti Paesi europei. Basta pensare all’Irlanda, un tempo annoverata tra i Paesi più cattolici e conservatori al mondo e oggi guidata da un Primo ministro di origini indiane e che ha sostenuto i diritti degli omosessuali, per capire quanto il processo sia avanzato.

La riflessione su un’Europa sempre più secolarizzata, in realtà, ha radici profonde: già alla fine del Settecento il poeta tedesco Novalis rimpiangeva «i bei tempi in cui l’Europa fu terra cristiana». Anche in tempi più recenti, l’Unione europea si è interrogata sull’opportunità di inserire nella Costituzione europea un riferimento alle proprie radici giudaico-cristiane. Nel 2000 l’allora cardinale Joseph Ratzinger sottolineò che la dimensione culturale e storica dell’Europa era prevalente sulla connotazione geografica e che era basata su una comune radice religiosa. A marzo del 2018 il quotidiano britannico The Guardian è arrivato addirittura a parlare della «nascita di un’Europa non cristiana», un’Europa che si muove verso una dimensione post-cristiana. Eppure, di religione si discute eccome: la presenza dei leader religiosi nel discorso pubblico, soprattutto in Italia, è costante, le riflessioni sul ruolo dell’Islam politico sono proposte con grande frequenza e l’ultima campagna elettorale italiana ha visto politici giurare addirittura sul Vangelo e indossare un rosario.

Si tratta di questioni complesse e che richiedono risposte complesse. Anche per questo, giovedì 6 settembre a Firenze si terrà un dibattito organizzato da Ispi, l’Istituto di Studi politici internazionali, dal titolo What is the problem with religion?, “qual è il problema con la religione?”.

Tra gli speaker anche Olivier Roy, Olivier Roy, docente presso lo European University Institute di Firenze e uno tra i più competenti esperti di secolarizzazione e Islam, secondo cui «è chiaro che la secolarizzazione in Europa continua. Significa che per esempio il numero di persone che vanno nei seminari della chiesa cattolica si riducono, così come il numero di persone che vanno regolarmente a messa».

C’è qualcosa di cui essere preoccupati guardando a questo processo?

«Direi che la cosa più grave è che abbiamo un’espansione dell’incultura religiosa, il fatto che i non praticanti non conoscano praticamente per nulla la religione. Pertanto c’è una crescita del divario tra praticanti e non praticanti, verso figure di “vagamente credenti”. L’Europa si secolarizza sempre di più».

Il titolo dell’evento contiene due parole chiave: “religione” e “problema”. Come sono connessi questi due termini? La religione ha un problema o la religione è un problema?

«Prima di tutto è la religione ad avere un problema: significa che per la religione in generale, e in particolare per la chiesa cattolica, la religione è una soluzione, cioè la religione è una risposta ai malesseri della nostra epoca, caratterizzata da un mix di edonismo e nichilismo. La religione ritiene di poter dare una risposta, di offrire una concezione chiara della legge naturale su come dovrebbe funzionare una società basata sull’amore e sulla speranza.

Ma tra le persone secolarizzate la religione è anche un problema. Il più rilevante è con l’Islam, certamente, ovvero la violenza terroristica, ma non solo: pensiamo all’importanza di questioni come la pedofilia in Italia, nell’Europa del Nord o negli Stati Uniti, diventata ormai un grande contenzioso. Siamo di fronte a un’ostilità diffusa dell’opinione pubblica nei confronti della chiesa cattolica, che l’ha percepita ma non ancora veramente compresa. Perciò possiamo dire che su questioni come l’aborto, il matrimonio omosessuale, o sul tema dello spazio religioso nella sfera pubblica, senza parlare della violenza, è in corso un divorzio tra quella che definirei la maggioranza del pubblico e le comunità di fede di qualunque confessione».

Quando pensiamo a realtà in controtendenza in campo religioso in Europa pensiamo all’islam, e quando lo facciamo normalmente lo connettiamo all’islam politico. A suo parere esiste una vera connessione tra queste due dimensioni o siamo di fronte a un pregiudizio?

«Questa è una questione rilevante per la grande maggioranza dell’opinione pubblica europea e per molti esperti. C’è una continuità tra la religione e la violenza? I semi della violenza si trovano dentro il Corano? La risposta della grande maggioranza dei musulmani è che no, non è vero, perché l’Islam è una religione di pace e si è mal interpretato il Corano, che invece contiene un messaggio di pace da portare al mondo. È evidente che in seno all’Islam la tensione è più forte. Personalmente credo però che quello di cercare la causa dei problemi di oggi nei testi sacri, dall’antico e nuovo testamento al Corano, sia un falso problema. Ciò che conta è che cosa i credenti fanno della religione e la grande maggioranza dei credenti vive la propria religione come una religione di pace. Va anche detto che la politicizzazione e l’ideologizzazione della religione a fini politici e criminali non appartiene soltanto all’Islam».

Negli ultimi anni, soprattutto dall’avanzata del Daesh, o Isis, abbiamo cominciato anche in Europa a ragionare come negli Stati Uniti dopo l’attentato delle Torri Gemelle dell’11 settembre, ovvero in termini di scontro di civiltà tra Cristianesimo e Islam. Che ruolo gioca per davvero la religione in questa dinamica?

«Quando si parla di scontro di civiltà si implica che non si tratti soltanto di religione, ma che ci siano due culture opposte, quella occidentale e quella mediorientale, entrambe fondate su una religione. Il problema però è che questo non è più vero: la cultura europea non è più cristiana e le chiese sono comunque piene. Allo stesso modo la violenza religiosa nel mondo islamico proviene da una crisi della cultura tradizionale islamica, da una deculturazione dell’islam. È per questo che la violenza è massima tra chi vive questa deculturazione: quando tra le seconde generazioni e i convertiti si verifica una rottura tra la tradizione dei genitori e la cultura del Paese allora si crea violenza. Direi che è visibile maggiormente nell’Islam, ma lo ritroviamo anche tra le altre fedi».

Storicamente ragioniamo di religione da una prospettiva cristiano-centrica o addirittura cattolico-centrica, ma in un mondo multilaterale potremmo aver bisogno di una prospettiva multiconfessionale. Crede che sia necessario pensare a un nuovo modo di affrontare le questioni religiose?

«Credo che oggi le religioni non siano più il luogo della cultura tradizionale. È insieme una fortuna e una sfortuna. È una sfortuna perché la religione diventa incerta e non è più radicata nella tradizione, occorre cercarla. Ma è anche una fortuna perché le religioni giustamente hanno una vocazione universalista, non sono il luogo di una cultura in particolare. In questo periodo di globalizzazione è necessario che le religioni ritrovino la loro vocazione universale e universalista invece di identificarsi in gruppi etnici o nazionali, come invece fanno oggi i movimenti populisti».