1024px-berner_muenster_langhaus

Va bene l’arte, ma dove è finita la storia della Riforma?

In una torrida mattina di agosto, entro nel Münster (la «cattedrale» evangelica) di Berna. Vi ero già stato trentun anni fa, nel corso di una specie di gita scolastica della Facoltà valdese di Teologia. C’è ancora la clessidra sul pulpito: l’altra volta l’avevo indicata, scherzando, a Paolo Ricca, che avrebbe predicato la domenica successiva: «Mi raccomando: l’hanno messa lì per te…». Mi emoziona, il Münster, e mi ricorda l’antica passione per la Riforma bernese, per l’interminabile predica di Zwingli sul Credo in occasione della disputa del 1528 e, soprattutto, per il meraviglioso scritto del 1532, con il quale Capitone contribuì a salvare la Riforma svizzera dopo la tragedia di Kappel e la morte di Zwingli. Un gruppo di amici bernesi ne aveva finanziato l’edizione italiana, che avevamo preparato per la Claudiana insieme a Paolo Tognina e, appunto, a Paolo Ricca: un testo che trasuda passione per l’evangelo e fa venir voglia di essere cristiani e protestanti.

Giro per il Münster, alla ricerca di tracce di quella storia. I cartelli mi spiegano che la chiesa era stata appena terminata quando è arrivata la Riforma e (sciaguratamente, par di capire) ha fatto sparire papi, santi e madonne. Perché? Non si sa. Per fortuna però, dice un altro cartello, ora sono ricomparsi, perché il soffitto è stato restaurato. Bene. Continuo il giro, alla ricerca dei grandi artefici della Riforma bernese, Berchtold Haller, Sebastian Kolb, Niklaus Manuel. Finalmente compare quest’ultimo, nella sua veste di pittore e grande interprete del genere «danza della morte» (tipo sequenza finale del Settimo Sigillo di Bergman, per intenderci). Sulla Riforma, silenzio. Devo essermi perso qualcosa: altro giro, ma esito identico. C’è però una specie di negozietto annesso, dove vendono libri. Eccoci, è il mio momento. In effetti c’è di tutto: foto dal campanile, scaffali di guide artistiche, orsi di Berna passati e contemporanei (i secondi, ovviamente, fotografati nel «parco» che si è aggiunto alla vecchia e poco animalistica «Fossa degli orsi»), storie per bambini. Alla fine scopro un libro di Kurt Guggisberg sulla storia della chiesa bernese: saranno duecentocinquanta pagine, pubblicate nel 1958, quale turista le leggerà mai? A mia consolazione compare, presso l’uscita, la rivista delle chiese evangeliche svizzere, Reformiert. Come si esprimerebbe Nanni Moretti: dì almeno una cosa protestante!

Vorrei, con tutto il cuore, sbagliarmi, ma non riesco a non scorgere qualcosa di simbolico in questa chiesa evangelica dimentica della propria storia di fede. Si fa memoria delle statue, ma non della predicazione dell’evangelo. E’ come se ci fosse un timore, un’inibizione. E’ come se ricordare, ad esempio, che le sculture sono state rimosse per una ragione profonda; che quella rimozione è stato un evento liberante per molte coscienze; che da quel pulpito si è riaperto «il corso della grazia», come lo chiama Capitone, che ha cambiato Berna e la Svizzera (visto che intorno è un tripudio di vessilli rossocrociati); come se ricordare tutto questo, dicevo, fosse poco interessante, o addirittura inopportuno. E così uno dei tre o quattro luoghi più significativi della riforma elvetica è presentato come una galleria d’arte. È anche questo, naturalmente. Sembra, però, che sia rimasto solo questo, il che induce una tristezza infinita. Riflettendo sulle difficoltà del protestantesimo italiano, un autorevole esponente della Chiesa valdese affermava, tempo fa, che all’estero non stanno meglio. L’osservazione è sacrosanta, anche se non vedo bene in che senso ci possa consolare.

Forse per il protestantesimo europeo è già passato l’ultimo treno?

Tornato a casa, ritrovo nel computer le pagine della versione dattiloscritta del libro sul Sinodo di Berna (in formato RTF, come usava allora…). Le rileggo. Ce n’è abbastanza per tornare al lavoro, per tornare alla predicazione, ce n’è abbastanza per convincersi che la Riforma ha pronunciato parole che ancora oggi spiegano che cosa può significare essere cristiani. Certo, queste parole agiscono anche se noi le dimentichiamo. Però non dovremmo farlo e se lo facciamo ciò è dovuto, come ha detto qualcuno, a «torpore spirituale». Una volta un collega mi ha chiesto, con tono critico, se io sia «risvegliato». Non lo so, veramente, ma lo preferirei al rimanere «assopito».