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Una chiesa in “stabile decrescita”

Ieri pomeriggio è stata presentata ufficialmente al Sinodo delle chiese valdesi e metodiste in corso a Torre Pellice la Ricerca Sociologica su Rispondenze e statistiche ecclesiastiche (Ri.So.R.S.E), commissionata dalla Tavola Valdese e dal Comitato permanente dell’Opcemi al Centro Studi Confronti (CSC). Si tratta della prima analisi socio-statistica sulla vita delle chiese metodiste e valdesi, mentre a livello europeo indagini analoghe e consolidate nel tempo sono state condotte ad esempio in Svizzera, Inghilterra e Portogallo.

I dati – raccolti nei bienni 2016/2017 e 2017/2018 – sono stati illustrati dal prof. Paolo Naso (Sapienza Università di Roma; membro del direttivo della Sezione di Sociologia della religione dell’Associazione italiana di sociologia), che ha impostato e supervisionato scientificamente la ricerca, e dalla dott.ssa Alessia Passarelli (sociologa, CSC), che ha coordinato il lavoro. A quest’ultima abbiamo rivolto alcune domande.

Qual è la fotografia che emerge dall’indagine?

«Il lavoro dà un’istantanea di quella che è la situazione sociologica delle chiese valdesi e metodiste sul territorio italiano in questo periodo storico. L’espressione che abbiamo proposto in conclusione è quella di una chiesa in “stabile decrescita”. Il provocatorio ossimoro evidenzia da un lato l’indubbia “tenuta” della Chiesa nella sua complessità: la chiesa, seppur nella criticità, rimane stabile nella sua testimonianza e nella sua vitalità sul territorio; dall’altro, una decrescita: negli ultimi 30 anni le chiese metodiste e valdesi hanno perso poco più di 5000 membri, pari al 24% della popolazione evangelica del 1985, e le zone più colpite sono state quelle del Sud Italia (nel IV Distretto -46%)».

Preoccupanti i dati relativi alla scarsa presenza nelle chiese dei giovani e dei bambini…

«I dati sono critici: soprattutto le chiese nel Centro e Sud Italia – che rappresentano circa il 20% delle chiese valdesi e metodiste – non hanno una scuola domenicale strutturata, questo vuol dire che non ci sono sufficienti bambini per poterla attivare. La questione della mancanza dei bambini è importante perché senza una formazione dei bambini è più difficile portare avanti una continuità delle comunità. Questo è un dato su cui la chiesa si deve interrogare. Anche per quanto riguarda i giovani la percentuale non è altissima, parliamo di una presenza che si attesta sotto il 10%, e anche qui sarà necessaria una riflessione approfondita. Bisogna però dire che i giovani che sono presenti nelle comunità, sono coinvolti e impegnati: partecipano non solo al culto, ma anche ad altre attività della chiesa, e a quelle proposte dalla Federazione giovanile evangelica in Italia (Fgei)».

La scarsa partecipazione delle giovani generazioni come viene letta dalle comunità che avete incontrato?

«Molte, ma non tutte, riconoscono che la mancanza del ricambio generazionale è uno dei nodi di maggior criticità. Anche da parte di comunità molto attive questo dato veniva sottolineato come un fattore negativo su cui stavano riflettendo e si stanno attivando, qualcuna realizzando dei progetti e altre, sperando di poterli realizzare in un prossimo futuro».

L’indagine ha coinvolto 12 comunità sparse su tutto il territorio nazionale. Quale accoglienza ha ricevuto il gruppo dei ricercatori?

«Devo dire che durante tutte le fasi della ricerca – che si è articolata nell’invio di questionari, nella condizione ed elaborazione dei focus group (interviste di gruppo) e nell’attività dei carotaggi (osservazioni partecipanti) – abbiamo riscontrato un’ampia accoglienza da parte dei membri di chiesa.  Eravamo un po’ timorosi… andare “a casa di qualcuno”, partecipare ai consigli di chiesa, agli studi biblici, fare domande che a volte potevano sembrare indiscrete, non era semplice. Invece, siamo stati felicemente sorpresi di ricevere un’accoglienza bella da parte di tutte le comunità che abbiamo visitato. Credo che questo sia un altro dato da leggere in maniera positiva: da parte delle chiese c’è la voglia di mettersi in gioco e di capire come poter migliorare».

Come sociologa ma anche in quanto credente evangelica, quali sono le sue aspettative future rispetto a questo lavoro?

«Mi auguro vivamente che il Sinodo e le chiese ricevano questa Ricerca sociologica come uno strumento a loro disposizione da cui far partire una riflessione teologica e ecclesiologica, perché una analisi sociologica fornisce una fotografia della situazione, ma da sola non offre delle risposte. Occorre fare un passo successivo: aver voglia di rimettersi un po’ in discussione, di uscire dalla dinamica del “si è sempre fatto così”, oppure “ho paura del cambiamento”. Nessuno propone di stravolgere la chiesa, l’istituzione, però una volta identificate le criticità, esse vanno affrontate per poi cercare anche di superarle».

E’ possibile scaricare qui la versione integrale della ricerca RI.SO.R.S.E.

 

Nella foto di Pietro Romeo: Alessia Passarelli