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Con Bibbia e teologia di fronte all’attualità

Un momento drammatico, un’estate sospesa tra i lutti come quello per il ponte di Genova e le tensioni fra poteri dello Stato; fra le ragioni dell’accoglienza e le chiusure sovraniste, fra gli appelli alla moderazione dei toni e le parole gridate, amplificate al di là dei loro, spesso labili, contenuti. Uno sfondo, quello dell’Italia 2018, che rapidamente riporta chi segua il Sinodo delle chiese valdesi e metodiste a una dimensione che sembra ben più problematica rispetto a quella della vita interna del protestantesimo nel nostro Paese. Eppure questa assise, di per sé, ha le premesse per essere una sessione importante per la vita, interna ed esterna, del messaggio cristiano in una società a cui Dio e Gesù Cristo interessano pochissimo. Non è più solo una questione di linguaggi nuovi da trovare, ma è questione di capire il valore che si dà alla propria fede, cercando senza reticenze la forma testimonianza che ognuno e ognuna di noi può dare agli altri, e soprattutto… decidendo di non rinunciare a farlo.

Così sarà importante, per questo Sinodo, rendersi consapevole dell’evoluzione «sociologica» delle comunità, come viene offerta dalla Ricerca Sociologica su Rispondenza e Statistiche Ecclesiastiche (Ri.So.R.S.E.). Numeri da studiare, da analizzare, da interpretare per capire il proprio futuro. Ma sarà anche importante il confronto sul rapporto tra diaconia e predicazione e sulle modalità, sempre da innovare, del dialogo ecumenico.

Tuttavia l’avvio dei lavori, che si protrarranno fino a venerdì 31 nell’Aula sinodale di Torre Pellice, viene fornito dal culto che si rende al Signore. In assenza di consacrazioni di candidati e candidate al ministero pastorale (i tempi tecnici dei periodi di prova ne annunciano quattro per l’anno prossimo, cinque si erano avute nel 2017), l’appello giunto con la predicazione (e la liturgia) da parte del pastore Emanuele Fiume (chiesa valdese di Roma – via IV Novembre) è stato fortemente legato all’attualità.

Basandosi sull’intero capitolo 59 del libro di Isaia, il sermone ha messo l’accento sulla necessità del ravvedimento, inteso innanzitutto come consapevolezza di essersi allontanati dall’insegnamento del Signore, avendo perso di vista le modalità in cui mettersi all’ascolto della Sua Parola. Valeva per il popolo di Dio e vale per noi oggi. Nonostante questo allontanamento, la conclusione di questo capitolo profetico porta con sé la rassicurazione da parte di Dio: «le mie parole che ho messe nella tua bocca non si allontaneranno mai dalla tua bocca, né dalla bocca della tua discendenza, né dalla bocca della discendenza della tua discendenza» (v. 21). Ma è una rassicurazione che bisogna meritare. Noi invece annaspiamo e ci chiediamo «dove sei, Signore?»: la conoscenza di Dio, la contemplazione che possiamo avere delle sue opere è come velata da un «sipario di peccato», che ci impedisce di averne pienamente cognizione.

Che cosa ci accomuna all’epoca di Isaia? Una situazione di crisi, che da economica diventa anche di identità e fa «vacillare i popoli». Uomini e donne cadono in un peccato innanzitutto culturale – ha detto Fiume –, «un magma appiccicoso di pensieri e parole dominanti, che ci contaminano in maniera pervasiva», «Aggeo, contemporaneo di Isaia, si lamenta che il popolo “abita nelle case ben rivestite di legno, mentre il tempio del Signore è in rovina”». Ci si rinchiude nei particolarismi e nell’egoismo, in ribellione alla Legge; ma poi questo peccato culturale, fatto di demonizzazione dell’avversario, diventa anche «cultuale», quando si faccia un uso strumentale dell’Evangelo riducendolo a simbolo identitario. Da qui al peccato sociale, che si concretizza nella minaccia di «chiusura dei porti – fatto inaudito nella nostra storia repubblicana», il passo è breve.

«La risposta di Dio a tutto questo disastro – ha proseguito il sermone – non è la distruzione, ma è il regno, il regno del Messia. “Un salvatore verrà per Sion” (v. 20). Un regno con un tempio distrutto e ricostruito in tre giorni: il corpo di Cristo (Matteo 26, 61) Un regno con un tempio formato da credenti sparsi in tutto il mondo. E in quel tempio, in Cristo e nella testimonianza dei credenti, Dio parla. Un regno con una giustizia di Dio che è una giustizia donata, assegnata, imputata. Un regno con una parola chiara, certa, conosciuta, ascoltata, proclamata e sigillata nei cuori per opera dello Spirito Santo. Un regno con una legge, antica e sempre nuova: l’amore verso Dio sopra ogni cosa e l’amore per il prossimo come per se stessi».

Nella Bibbia, dunque, e nella teologia, le chiese devono trovare le basi per rivolgersi ai propri contemporanei. Il pastore Fiume aveva citato il teologo valdese Giovanni Miegge (1900-1961), che scriveva: «La Chiesa, che crede nella incarnazione di Cristo, ha il diritto e il dovere di ricordare anche allo Stato la dignità di quella umanità di cui Cristo si è rivestito».

Da qui, non da altre considerazioni, nei prossimi giorni ci si potrà muovere per richiamare i governanti ai loro compiti. Sappiamo che ce n’è bisogno: siamo preoccupati, e resteremo preoccupati: l’importante è che, di fronte alle politiche più incomprensibili e più ingiustificabili, ma anche nel cuore dei lavori sinodali, quando si tratta di decidere dove fare andare la Chiesa, nessuno pensi di aver proposto egli stesso la soluzione giusta e di aver avuto ragione per meriti propri; Ognuno e ognuna, piuttosto, sappiano assecondare lo Spirito del Dio che non abbandona il suo popolo, né quando si tratta di indignarsi e protestare, né quando si tratta di prendere decisioni.

Foto: Massimo Bosco