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La resilienza come marchio

Pastora della Fraternità di Chiese battiste di Cuba (Fibac), Daylins Rufin Pardo è docente al Seminario Evangelico di Teologia (Set) di Matanzas nell’Area di Bibbia (Teologia dell’Antico Testamento e Ebraico biblico) e all’Istituto superiore ecumenico di scienze della religione (Isecre) dell’Avana in Interpretazione di testi sacri, Genere e religione e Religione ed ecologia, nonché specialista dell’Area socio teologica del Centro Oscar Arnulfo Romero.

Come sorge la presenza battista a Cuba?

Le origini dei battisti a Cuba risalgono alla fine del XIX secolo e sono collegate alle Convenzioni battiste del sud e del nord degli Stati Uniti: la prima fondò la Convenzione battista di Cuba occidentale nel 1905, la seconda quella di Cuba orientale nel 1909. Le Chiese protestanti, in generale, arrivarono nell’isola attraverso missionari nordamericani e “creoli” che tornavano a Cuba dopo essere vissuti negli Stati Uniti. Le caratteristiche tipiche della nostra realtà furono a volte ingenuamente ignorate, col risultato di una plantatio ecclesiae sfocata rispetto all’identità cubana, al nostro modo di celebrare la fede a partire da una cultura caraibica, più vicina a quella latinoamericana che a quella nordamericana.

E qual è la situazione oggi?

Oltre alle due grandi Convenzioni ci sono i cosiddetti “battisti liberi”, che ne condividono una visione biblico-teologica conservatrice rispetto al quarto gruppo presente nell’isola: la Fibac. Questa nasce nel 1989 dall’uscita di comunità e pastori dalle due grandi Convenzioni per differenze teologiche, in particolare circa il lavoro sociale della Chiesa. Furono soprattutto la proiezione ecumenica, lo sguardo critico verso un Vangelo che era stato impiantato, più che seminato, in mezzo a noi, e la preoccupazione di combinare pastorale e responsabilità sociale a determinare questa rottura. La Fibac è l’unico gruppo di battisti a Cuba che accetta l’ordinazione delle donne al ministero pastorale.

Che significa testimoniare la fede cristiana nella Cuba socialista?

Non significa discriminare per ideologia. C’è una differenza tra il non condividere certi antivalori e annullare il diritto di un’altra persona solo per le sue idee partitiche. Vivere la fede cristiana a Cuba esige questa apertura di pensiero, soprattutto perché la sua assenza ha fatto male al corpo sociale e al corpo di Cristo che siamo stati a Cuba dal 1959 a oggi. Non possiamo vivere la fede senza cercare di trovare punti comuni con l’altra e l’altro sulla base più dei valori e meno del credo, perché ciò significherebbe riprodurre e rafforzare la stessa ideologia di partito che non vogliamo né come società né come Chiesa e che in entrambi gli ambiti – socio-politico e socio-religioso – abbiamo per molti aspetti superato. La testimonianza cristiana non può essere resa concreta senza inclusione, senza accettazione della pluralità che ci costituisce come persone, come Chiese e come popolo, senza capire che “tutti gli uomini sono uguali perché sono diversi” e che costruire una Cuba migliore trascende le ideologie di partito, è un dovere civico e un nostro diritto umano come popolo. Orientare la vita cristiana senza tener conto dell’alterità porta con sé un enorme pericolo colonizzatore. In un contesto segnato da memorie di liberazione, come è quello cubano, sarebbe un peccato non essere sensibili a questo pericolo e ai suoi effetti!

Quale potrebbe essere il contributo specifico della teologia fatta a Cuba alla riflessione cristiana latinoamericana?

Una teologia fatta a Cuba potrà mostrarsi come una teologia della resistenza e della speranza. La capacità di resilienza sarà il suo marchio, perché se qualcosa distingue le cubane e i cubani è la capacità di rialzarsi e affrontare i problemi con un sorriso. Il popolo di Cuba non rimane a piangere più del necessario, guarda l’altra faccia della medaglia, si sostiene e condivide anche senza conoscersi molto e va avanti. E il nostro modo di pensare e di dire su Dio porta quei segni. Non chiede il permesso di amare e dare ciò che si crede necessario. Non resta indifferente davanti all’ingiustizia, alla fame o alla sete. Il nostro contributo è una teologia a favore della vita. Ostinata nell’amare, fedele all’Amore che non si stanca mai. È una teologia appassionata.

Che significa essere una pastora a Cuba?

È un privilegio. In primo luogo perché il maschilismo, che è il volto del patriarcato a Cuba, impera al punto che pochissime donne possono esercitare un ministero di uguali nelle loro denominazioni. In secondo luogo, perché il modo in cui questo influisce sull’immaginario delle cubane e dei cubani, di altre religioni o di nessuna religione, è una sorpresa, e quasi sempre piacevole. C’è molta curiosità e grande vicinanza verso noi pastore da parte della gente. La possibilità di relazione e di condivisione della fede, della vita nella fede e dell’impegno per viverla in un ministero impegnato è un bellissimo regalo di Dio. Infine perché permette di elaborare una teologia in cui anche il volto femminile di Dio sia reso visibile e si possa mostrare pure un modo di leggere le Scritture in cui le donne del movimento di Gesù e molte cristiane nella storia siano restituite nella dignità, menzionate, ri-cordate … cioè, tornate a passare attraverso i cuori di gente nuova.