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Zimbabwe, il partito al potere verso la vittoria

A due giorni dal voto, in Zimbabwe non ci sono ancora informazioni certe e definitive sull’esito delle elezioni, le prime senza Robert Mugabe. Tuttavia, la Zec, la Commissione elettorale del Paese, ha dichiarato nella mattina di mercoledì 1 agosto che la vittoria va assegnata al partito di governo, lo Zanu-PF, che ha sempre guidato il Paese e che si sarebbe imposto con un ampio margine: anche se il conteggio dei voti non è ancora terminato, infatti, al partito del presidente a interim uscente, Emmanuel Mnangagwa, sono già stati assegnati 109 o 110 seggi, sufficienti per garantirsi l’assoluta maggioranza parlamentare. Le elezioni sono state le prime dopo le dimissioni forzate di Robert Mugabe, presentate lo scorso novembre e arrivate a seguito di un regolamento di conti interno al suo partito. Mnangagwa, che ha combattuto accanto a molti generali ed è uno dei massimi dirigenti del partito, lo scorso autunno era stato estromesso dalla vicepresidenza a causa delle ambizioni politiche dell’ex first lady, Grace Mugabe, ma grazie al sostegno dei militari aveva ottenuto la possibilità di ritornare e aveva spinto alle dimissioni Mugabe, che aveva governato in Zimbabwe per 38 anni, imponendo un regime autoritario e violento.

Negli mesi precedenti al voto Mnangagwa, che in passato era stato capo dei servizi di sicurezza, aveva in parte allentato la repressione sulla libertà di stampa e sulle opposizioni, permettendo ai candidati dei partiti di opposizione di condurre la campagna elettorale senza essere minacciati e repressi. Nonostante il clima di parziale distensione, i sospetti e le accuse non sono mancati nelle ore e nei giorni successivi al voto. Martedì 31 luglio Nelson Chamisa, giovane pastore protestante leader dell’opposizione, aveva accusato la Commissione elettorale dello Zimbabwe di ritardare la diffusione dei risultati elettorali per favorire il partito di governo.

Al di là del risultato, spicca comunque un primo dato: il voto ha visto una grande partecipazione dei cittadini, al punto da superare il 75%, ed è arrivato al termine di una campagna elettorale insolitamente pacifica e partecipata per il Paese. Enrico Casale, redattore di Rivista Africa, spiega che «i dati positivi sono l’affluenza al voto e soprattutto il controllo da parte di osservatori internazionali. Questo è un dato da non trascurare, perché in passato Mugabe aveva sempre impedito la possibilità a osservatori internazionali di controllare le elezioni in Zimbabwe, quindi questa è una garanzia di maggiore trasparenza, anche se non di trasparenza assoluta».

Anche le Nazioni Unite e l’Unione europea hanno confermato la regolarità del voto, mentre per la prima volta il portavoce dello Stato maggiore dell’esercito ha assicurato la neutralità dei militari.

Ma quale speranza di cambiamento si può riporre in un voto che sembra aver premiato ancora una volta lo stesso partito che ha guidato il Paese negli ultimi 38 anni? «Non sono così positivo – prosegue Casale – nel senso che è vero che è caduto Robert Mugabe, che sulle schede elettorali non c’è più il suo nome, ma è anche vero che la classe politica che era dietro a Robert Mugabe è ancora lì che governa e lo stesso presidente di transizione è un uomo che per anni ha sostenuto, appoggiato e ha attuato le politiche di Mugabe. Se da un lato non c’è più il “grande vecchio”, dall’altro molti dei suoi compagni, sia di lotta sia di governo, sono ancora lì».

Chiunque arrivi al governo, dovrà affrontare alcuni nodi non più rimandabili, soprattutto di carattere economico. «È un Paese in rovina – racconta ancora Enrico Casale – e che ha il record della disoccupazione. Si parla del 90% di disoccupati, quindi praticamente l’intera popolazione è disoccupata». Tra le cause principali di questa situazione disastrosa, sicuramente la riforma agraria che l’ex presidente Mugabe ha portato avanti sin dall’indipendenza. Avviata nel 1980 con la firma del Lancaster House Agreement, la riforma aveva lo scopo dichiarato di rendere più equilibrata la distribuzione dei terreni agricoli, controllati in larga parte dai latifondisti bianchi di origine europea.

Nel momento dell’indipendenza, infatti, le disuguaglianze nella proprietà della terra erano così ampie da aver scavato un solco tra due economie non integrabili. Nella prima fase, fatta di acquisti e vendite su base volontaria, l’ex potenza coloniale britannica sostenne la metà dei costi della redistribuzione, ma alla fine degli anni Novanta, con l’esaurimento dei fondi messi a disposizione dall’amministrazione Thatcher, il primo ministro Tony Blair pose fine all’accordo. Lì si arrivò al punto di rottura, alla redistribuzione forzata delle terre voluta da Mugabe e attuata in piena indipendenza, confiscando forzatamente le fattorie bianche senza compenso. Il problema, spiega Casale, è che «Mugabe aveva dato il via a una riforma agraria che aveva portato via le terre ai grandi latifondisti bianchi per redistribuirle, ma non le ha distribuite ai contadini, ma le ha distribuite ai suoi gerarchi. Le tenute che una volta erano il perno su cui girava l’economia dello Zimbabwe sono diventate improduttive, con questo è crollata l’economia locale e non solo l’agricoltura, ma anche quel poco di industria di trasformazione che era legata all’agricoltura. Lo Zimbabwe da Paese esportatore di derrate agricole si è trasformato in Paese importatore. L’attuale presidente di transizione ha permesso ad alcuni di questi farmer bianchi di rientrare nelle loro tenute, ma ci vorrà ancora tempo perché si ritorni ai vecchi livelli produttivi».